giovedì 27 gennaio 2011

Le marce della morte.



"Kein Häftling darf lebendig in die Hände des Feindes fallen". Era il 14 aprile 1945 e Heinrich Himmler, capo supremo delle SS, ordinava che nessun prigioniero sarebbe dovuto cadere vivo in mani nemiche.
Negli ultimi mesi della Seconda Guerra mondiale, i prigionieri presenti nei campi di concentramento erano circa 714mila. Con l'arrivo degli anglo-americani da ovest e dell'Armata Rossa da est, tra l'aprile 1944 e la primavera 1945, moltissimi di questi prigionieri vennero costretti ad una nuova agonia: l'evacuazione dai campi e le cosiddette "marce della morte".
Centinaia di migliaia di detenuti, già stremati da mesi di privazioni, violenze e lavori forzati, venivano obbligati a marciare fino alle prime stazioni ferroviarie utili. Dopo un viaggio reso estenuante da ogni tipo di stenti, i prigionieri dovevano camminare ancora per chilometri per raggiungere i campi di raccolta. Quelli che non riuscivano a stare al passo o che tentavano di fuggire venivano trucidati dalle guardie di scorta.
Per la prima volta le marce della morte non sono più considerate come epilogo della vita dei campi di concentramento, ma come capitolo centrale della storia del genocidio nazista, iniziato nel 1941 e conclusosi con la fine della guerra, inteso nella sua prospettiva più ampia.
Daniel Blatman, docente all'Università ebraica di Gerusalemme, con alle spalle diversi lavori sulla storia degli ebrei, supera l'approccio assunto nei dibattiti processuali del dopoguerra, che si concentrano sull'aspetto amministrativo e burocratico, e quello di molta storiografia tra gli anni '60 e '90, che considera la fase dell'evacuazione soltanto come "l'ultimo atto omicida di matrice ideologica nel contesto della soluzione finale". Basti pensare solo al fatto che in questa fase le vittime non sono più identificabili con una precisa etnia, ad esempio gli ebrei, o con un gruppo religioso, ad esempio i testimoni di Geova.
Blatman ha consultato le indagini processuali condotte nella Repubblica Federale Tedesca e in Austria e le innumerevoli testimonianze di sopravvissuti, sparse negli archivi di tutto il mondo. Collocate nell'ampio contesto culturale, politico e militare in cui avvenne l'evacuazione, le marce dei prigionieri si intrecciano con la fuga dei civili profughi dall'Est, terrorizzati dall'avanzare dei sovietici, e con le vicende della popolazione tedesca, smarrita e confusa dinanzi al precipitare degli eventi. L'importanza dello studio consiste anche nella ricchezza e varietà degli episodi di microstoria, il più emblematico dei quali fu il massacro di Gardelegen, cittadina dell'Altmark, in Sassonia, nell'aprile 1945.
Con una scrittura agile, Blatman riesce egregiamente nel suo sforzo storico e narrativo ad indagare l'identità, l'emotività e le motivazioni di carnefici, vittime, liberatori, ma anche dei civili tedeschi, che la confusione degli ultimi mesi di guerra e la quotidianità carica di tensione trasformarono anche in occasionali carnefici.

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