sabato 4 agosto 2012

La scelta di Vittorio

Storia di un fascista cattolico convinto che rinnegò il Duce e divenne Giusto tra le Nazioni



Nel giardino dei Giusti tra le Nazioni, a Yad Vashem, dal 1997 c’è un albero dedicato a Vittorio Tredici (1892-1967). Un nome sconosciuto ai più. A volte però i percorsi biografici degli uomini poco noti ci aiutano ad addentrarci nelle pieghe di un’epoca, per capirne i drammi, i dilemmi, le attese, le speranze e penetrare negli intimi recessi della storia: lì dove le azioni dei singoli si incontrano con i grandi eventi e ognuno è chiamato a compiere delle scelte.

Vittorio Tredici aveva già compiuto le sue scelte: nella Sardegna natia era passato dal Partito Sardo d’Azione al fascismo, raggiungendo posizioni di responsabilità nella politica economica mineraria, di cui era un esperto, e divenendo prima commissario prefettizio (1924-1926) e quindi podestà di Cagliari (1927-1928). Negli anni Trenta si trasferì a Roma. In quel periodo la sua identificazione con il fascismo era piena: il suo universo, come scrisse nel 1933, era illuminato da “due fari”, il Vicario di Cristo e il Duce. Ma alla fine degli anni Trenta le sue convinzioni entrarono in crisi. La politica imperialistica avviata dal regime (che poneva l’attività mineraria al servizio dell’industria bellica), l’avvicinamento al nazismo, in cui erano presenti forti suggestioni anticattoliche, e la politica razzista e antisemita fascista, che turbò i rapporti tra i due “fari”, misero a dura prova la fedeltà di Tredici al fascismo.Il secondo “faro” si oscurò e il primo prese il sopravvento. Dopo aver schiettamente espresso a Mussolini le sue convinzioni sull’impreparazione dell’Italia ad affrontare la guerra che oramai si profilava all’orizzonte, nel 1939 Tredici perse quasi tutte le sue cariche. Meno oberato da impegni politici, Tredici prese parte più attivamente alla vita della sua parrocchia, la chiesa di Santa Lucia sulla Circonvallazione Clodia. Il parroco, Ettore Cunial, era suo intimo amico. Raccontava che Tredici era il “factotum dell’Azione cattolica e delle opere di carità della parrocchia”.

Don Cunial era un personaggio eminente nel mondo ecclesiastico romano. Era stato ordinato sacerdote nel 1929 e nel 1936 fu nominato parroco della erigenda chiesa di Santa Lucia. Cunial avviò subito opere di carità per venire incontro alle famiglie povere della zona. Diede vita inoltre alle “comunità di palazzo”, promuovendo una pastorale capillare intesa a coinvolgere il più possibile gli abitanti della zona nella vita parrocchiale. Questa socialità religiosa fu negli anni seguenti alla base della rete di soccorso creata durante l’occupazione tedesca e coordinata dal parroco, in cui parte di rilievo ebbe Vittorio Tredici.


La mattina del 16 ottobre 1943, una giornata grigia e fredda bagnata da una pioggia insistente, un camion di militari tedeschi si fermò in via Sabotino 2A, di fronte all’abitazione di Tredici. Era coperto di un telone scuro. Alcuni curiosi si erano fermati a osservare la scena. Non si trattava di un normale trasporto militare di truppe. Il camion era pieno di civili, uomini, donne, bambini, anziani ammassati insieme a valigie e pacchi. Era iniziata la grande razzia degli ebrei romani nella Roma occupata dai nazisti.

Prima dell’alba i tedeschi avevano bloccato le vie di accesso alla zona del vecchio ghetto e avevano cominciato a portar via le famiglie, casa per casa. Nell’azione erano impegnate, oltre a un commando inviato appositamente da Adolf Eichmann e guidato dal suo fido collaboratore Danneker, alcune compagnie messe a disposizione dal comandante della piazza di Roma Stahel: 365 uomini, tutti tedeschi.

Gli italiani erano stati impegnati nell’organizzazione logistica dell’operazione. La città era stata divisa in ventisei settori. In ognuno di questi era operativa una squadra con uno o più camion che si muoveva in base a un elenco nominativo su cui era indicato l’indirizzo di ogni famiglia.

I militari tedeschi in via Sabotino cercavano la famiglia Funaro: l’unica famiglia di ebrei che abitava in quel palazzo. Tempestivamente informati dal portiere, i Funaro si precipitarono fuori dal loro appartamento che si trovava al quinto piano. Con l’ascensore arrivarono al piano terra mentre i tedeschi salivano per le scale. Il portiere, con prontezza di spirito, li nascose prima nel vano dell’ascensore e poi avvertì Vittorio Tredici, che li fece entrare nel suo appartamento, dove oltre a lui risiedevano la moglie e i nove figli. I tedeschi in casa Funaro trovarono solo il padre di Rodolfo, Vittorio, che era malato e immobilizzato a letto. Il portiere disse loro che aveva una grave malattia infettiva. Contrariati, ma allo stesso tempo intimoriti, i tedeschi lasciarono lo stabile di via Sabotino a mani vuote.

Il camion, dopo essersi fermato ad altri indirizzi della zona, si diresse verso sud e transitando per il lungotevere, verso l’ora di pranzo, giunse al punto di raccolta stabilito, il Collegio militare di via della Lungara. Nella struttura militare regnava un gran caos: 1.265 persone, spaesate, impaurite, in alcuni casi ancora in camicia da notte, o con abiti rimediati in fretta e furia sotto la minaccia dei fucili, si aggiravano nelle varie aule tentando di riunirsi per famiglie, cercando rassicurazioni e conforto. Dopo due giorni i rastrellati furono deportati ad Auschwitz. Degli oltre mille deportati soltanto 15 fecero ritorno.

I Funaro, accolti nell’abitazione della famiglia Tredici, ripresero fiato. Rodolfo salì a prendere il padre e con l’aiuto di Vittorio Tredici, che aveva molti contatti nel mondo ecclesiastico, trovò una sistemazione per la moglie Virginia e il figlioletto Massimo in un istituto di suore a Monteverde. Rodolfo, il padre Vittorio e la madre Ester Gay, trovarono rifugio altrove. Successivamente Tredici collaborò con il parroco Cunial, che nascose nei locali della chiesa ebrei e ricercati.

L’attività di Tredici e Cunial non era un’eccezione nella Roma occupata. Per comprendere in quale contesto si inseriva bisogna addentrarsi nelle pieghe della vita sociale e religiosa della capitale, meta di tanti rifugiati e disperati in cerca di aiuto.

Le vicende di soccorso come quella che vide protagonista Vittorio Tredici non sono poche. Numerosi romani trovarono in quei mesi un coraggio e una determinazione che forse neppure i tedeschi sospettavano. Tra coloro che aiutarono gli ebrei ci furono molti cattolici. Molto è stato scritto sull’atteggiamento della Chiesa a Roma nei confronti della persecuzione antiebraica, nei nove mesi di occupazione nazista, con giudizi spesso contrastanti. Il dato unanimemente accettato dagli studiosi è che le parrocchie, i conventi e gli istituti ecclesiastici in genere ospitarono un alto numero di ebrei, sottraendoli alla deportazione, come ha ricostruito in maniera analitica Andrea Riccardi nel libro L’inverno più lungo. Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma.

Una chiave di lettura di quel che accadde nei mesi di occupazione può essere data dallo studio delle “reti” di soccorso che spontaneamente vennero create negli ambienti cattolici, soprattutto dopo la razzia del 16 ottobre 1943. Il caso di Tredici è in tal senso un esempio di una “rete” di soccorso, in cui operavano laici e religiosi insieme. Tredici era vicino alle istituzioni ecclesiastiche e aveva sempre coltivato il senso di appartenenza a una comunità di fedeli, in cui il parroco rivestiva un ruolo centrale. I legami tra i parrocchiani, il clero cittadino, gli istituti religiosi, erano nutriti da rapporti quotidiani, incontri, collaborazioni, amicizie. Soltanto tenendo presente questo fitto tessuto di relazioni è possibile comprendere come, tra il settembre 1943 e il giugno 1944, si crearono rapidamente delle reti clandestine di soccorso agli ebrei e a tutti coloro che si ritrovarono braccati dai nazisti. Si trattava di “organizzazioni” sorte spontaneamente, per lo più senza alcuna pianificazione, formate talvolta da pochi individui. Alcune reti di soccorso erano certamente di dimensioni maggiori, come quella che faceva capo al Laterano e all’opera di monsignor Roberto Ronca, rettore del Seminario Romano Maggiore. In questo caso c’era un legame diretto con la Segreteria di Stato, in particolare con monsignor Giovanni Battista Montini, oltreché con parrocchie e istituti.

L’attività di accoglienza gestita dal Laterano coinvolgeva senza dubbio decine di preti e religiosi ed era chiaramente appoggiata da Pio XII. Non si potrebbe infatti immaginare che negli edifici adiacenti San Giovanni in Laterano, cattedrale di Roma, città del Papa, si potessero ospitare centinaia di rifugiati e politici antifascisti, tra cui Nenni, senza che il Pontefice ne fosse a conoscenza.

L’opera di salvataggio in cui ebbe una parte Vittorio Tredici comprendeva don Ettore Cunial e suo fratello Fausto, alcune suore di Monteverde, e altri parrocchiani della chiesa di Santa Lucia. In una certa misura queste reti “minori” di protezione e di accoglienza erano slegate dal Vaticano e agivano per iniziativa propria. Al tempo stesso però è evidente che parroci, religiosi e laici agissero sentendosi in piena sintonia con la volontà del Papa, Pio XII. Si può peraltro immaginare che l’accoglienza offerta in Laterano – di cui negli ambienti cattolici si era a conoscenza – sia apparsa a preti e religiosi di Roma una sorta di indicazione da seguire: se la basilica del Papa apriva le porte ai rifugiati, tutte le chiese potevano fare altrettanto. Suore, religiosi e preti ospitarono con larghezza i rifugiati. È stato stimato che almeno 4.000 ebrei furono salvati dalla Chiesa a Roma. Il 4 giugno 1944 l’esercito angloamericano entrò a Roma, liberandola dai nazifascisti. Per molti, che avevano perso tutto, iniziò tra stenti e difficoltà di ogni genere una vita nuova. Anche i Funaro poterono ritornare alla loro casa, ma le difficoltà erano tante, per cui anche nella Roma liberata continuarono a essere sostenuti dai Tredici: nel 1945 Vittorio fece entrare Rodolfo Funaro nella Società ligniti carboni di cui era amministratore. Ma molto presto sarebbe stato Vittorio Tredici ad aver bisogno dell’aiuto dei Funaro. Nei suoi confronti era stato infatti avviato un procedimento di epurazione: dopo essere stato tradotto a Regina Coeli, venne prosciolto da ogni accusa e liberato, grazie anche alla testimonianza dei Funaro e di altre persone che aveva aiutato durante l’occupazione tedesca.

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