C’è una pagina importante della nostra storia, affossata da più di mezzo secolo, che riguarda la schiavitù nei Lager nazisti dopo l’8 Settembre 1943 di 716.000 militari italiani, 33.000 deportati politici (militari e civili) e 9.000 zingari ed ebrei d’Italia e dell’Egeo. La deportazione in Italia gettò nell’angoscia sette milioni di familiari e amici, come ammise anche Mussolini.
Ma in Patria i reduci si ammutolirono e gli altri non vollero sapere! E’ perciò importante ripercorrere quelle vicende.
Gli italiani furono travolti dall’Armistizio segreto dell’8 settembre con gli Alleati, dopo una guerra di aggressione impreparata, non sentita, male armata e guidata (ma combattuta con indiscusso valore dai soldati italiani), dopo le batoste d’Africa, l’infelice campagna di Grecia, la tragica ritirata di Russia dell’A.R.M.I.R. (Armata Militare Italiana in Russia), lo sbarco alleato in Sicilia, i 600.000 prigionieri degli Alleati e il crollo del fascismo il 25 luglio 1943, seguito dai quarantacinque giorni di Badoglio senza che si instaurasse una democrazia.
L’Esercito Italiano, colto di sorpresa e allo sbando, si trovò alla mercé della rabbia tedesca. Hitler si aspettava il nostro voltafaccia e, fin dal 26 luglio, aveva calato in Italia altre 17 divisioni per occuparla, disarmare e sostituire le nostre truppe e attuare il piano, studiato dalla primavera, di deportare nel Reich, alla prima occasione, i nostri soldati come braccia da lavoro.
L’Esercito italiano, con 2.000.000 di combattenti e territoriali presenti, si dissolse nell’illusione del tutti a casa!, senza piani, ordini e mezzi, lasciato allo sbaraglio dal re, da Badoglio, da duecento generali in fuga e nell’indifferenza degli Alleati. Sopraffatte alcune nostre eroiche resistenze a Roma, nelle isole greche (Cefalonia, Corfù, Lero ...) e nei Balcani, la Wehrmacht (forze armate tedesche) disarmò con l’inganno 1.007.000 nostri militari, ne catturò 810.000 e ne transitò, in 284 Lager d’Europa, i 716.000 (l’88%, con 27.000 ufficiali) che si rifiutarono di collaborare per coscienza, onore, lealtà, dignità, stanchezza della guerra e convinzione del la va’ a pochi!, rinunciando a un ritorno a casa disonorevole.
Derisi dagli stranieri come spaghettari, mandolinisti e via dicendo, e usi ad autodenigrarci, dobbiamo essere fieri della nostra italianità, dalle qualità nascoste che emergono da questo "NO!" di ciascuno e di tutti, coraggioso e spontaneo, non condizionato da partiti e colonnelli, reiterato nei Lager per venti mesi di violenze e morti, e opposto ai tedeschi perfino da analfabeti della Barbagia, delle Madonne e dell’Aspromonte, usi da secoli al sissignore.
E se questa marea di renitenti avesse dato il sostegno politico e militare a Hitler e Mussolini? Quanti sarebbero stati i partigiani e con quali armi e prospettive? Certamente si sarebbe scritta una storia diversa e una ritardata vittoria alleata, come riconobbero autorevoli capi partigiani come Arrigo Boldrini e Paolo Emilio Taviani.
I militari italiani, catturati con l’inganno e senza quasi resistenza, vennero subito defraudati dai tedeschi del loro status naturale di prigionieri di guerra (KGF) e delle conseguenti tutele, e vennero marcati come internati militari (I.M.I., una qualifica arbitraria non prevista dalle convenzioni internazionali) e considerati falsamente come disertori badogliani e potenziali soldati del duce in attesa di ravvedimento e impiego
Nel corso di venti mesi si ebbe lo stillicidio di 103.000 (14%) collaboratori dei tedeschi arruolati per fame nelle Waffen-SS [SS combattenti] (23.000 nell’autunno del 1943), nelle divisioni fasciste di Graziani (19.000 a tutto il giugno del 1944) e negli ausiliari lavoratori della Wehrmacht e della Luftwaffe [forza aerea della Germania nazista] (61.000 fino al gennaio del 1945). I 613.000 I.M.I. irriducibili vennero sfruttati come schiavi, anzi come esseri subumani o pezzi numerati di magazzino (come li definivano i nazisti), in miniere, fabbriche e campi o a scavare macerie e trincee, sempre sotto minaccia delle armi, tra violenze, degrado, fame, malattie non curate e dei bombardamenti alleati. Le loro speranze di vita erano di pochi mesi poiché lavoravano da settanta a cento ore alla settimana con un consumo giornaliero di 2300/3300 calorie, non compensato dalla dieta di 900-1700 calorie. La sopravvivenza degli I.M.I. si deve a qualche pacco da casa, un po’ di riso e gallette del SAI fascista e soprattutto a furti di patate, svendite del poco non rapinato nelle perquisizioni e anche bruciando decine di chili di risorse corporee.
I soldati (e poi gli ufficiali) costretti a lavorare, dopo l’accordo Mussolini-Hitler del 20 luglio 1944, vennero arbitrariamente civilizzati in finti lavoratori liberi, mentre gli irriducibili finirono coatti come nemici dell’Europa nei Campi di punizione per detenuti ribelli (Straflager), nei Campi di lavoro rieducativi (AEL, Arbeitserziehungslager) della Gestapo dipendenti dai campi di sterminio (KZ, Konzentrationslager).
La resistenza degli I.M.I., nota come l’altra resistenza (o senz’armi, silenziosa, bianca) si attuò a rischio di morte con il sabotaggio, la non collaborazione e il lavoro rallentato fino anche a metà o un terzo della norma dell’operaio tedesco e, indirettamente, consumando risorse e distogliendo per venti mesi dai fronti, per custodia, più di 60.000 soldati tedeschi. La resistenza degli I.M.I. non fu inerme, né moralmente meno eroica di quella armata.
Dal 1943 al 1945, gli schiavi di Hitler di 28 paesi, deportati in oltre 30.000 Lager, dipendenze e comandi di lavoro (AK), furono in tutto 24 milioni, con 16 milioni di morti. I prigionieri di guerra (KGF) dovevano lavorare; gli alleati venivano trattati secondo le convenzioni, nutriti, curati, pagati, tutelati da uno stato neutrale e assistiti dalla Croce Rossa; i russi erano sfruttati senza tutele, affamati e malati; i deportati politici, razziali, asociali o tarati erano trattati anche peggio, destinati all’eliminazione con le armi, il gas, le malattie non curate e il lavoro duro accompagnato dalla fame. Gli I.M.I. erano trattati come i russi, ma - caso unico - potevano scegliere in ogni istante tra la libertà con disonore e il Lager con dolore: scelsero la schiavitù, coerenti coi valori e la coscienza in una scelta continua ossessionante più della stessa fame e reiterata per 600 giorni, come dire 50 milioni di secondi, cifre presto scritte ma eterne a viverle.
Gli I.M.I. pagarono la loro scelta con 51.000 caduti (l’8%, di cui 23.000 per fame e gli altri per malattie, violenze e fatti di guerra) che venivano a sommarsi ai 29.000 della prima resistenza armata (come a Cefalonia), ai 31.000 deportati politici militari e civili e agli 8.000 ebrei e zingari che non fecero ritorno dai campi di sterminio (KZ). I morti furono in tutto 120.000 e coi 60.000 partigiani e civili caduti in Italia e nei Balcani, le vittime italiane dei nazisti furono 180.000.
A guerra finita i 560.000 I.M.I. superstiti (il 91%), civilizzati e militari, (compresi 11.000 prigionieri dei tedeschi e poi dei russi), testimoni imbarazzati dell’8 Settembre, furono accolti con diffidenza o indifferenza dagli italiani freschi della propaganda fascista che camuffava gli I.M.I. come cooperatori. "Ma chi sono" - si chiedeva il governo - "fascisti o comunisti da rieducare, repubblicani? E come voteranno?" - in una monarchia traballante che aveva abbandonato gli I.M.I. allo sbaraglio - "E che cosa mai rivendicheranno? Ma, insomma, chi glielo ha fatto fare a non lavorare, se firmavano mangiavano!" Pregiudizi avvilenti per gli I.M.I. e ispirati dal ricordo dei reduci della grande guerra che presero parte attiva alla marcia su Roma e all’impresa di Fiume.
Tutto questo avveniva nell’incomprensione, ingratitudine e disinteresse degli italiani: gli I.M.I. erano troppi, si sommavano ad altrettanti prigionieri degli Alleati e non facevano notizia come i partigiani, l’olocausto e l’A.R.M.I.R. Così il rimpatrio degli I.M.I. non venne sollecitato nel 1945 e si svolse in parte per iniziative del Vaticano o individuali.
Poi ci fu la guerra fredda e per decenni i nostri governi imbavagliarono la storia perché non riaffiorassero le colpe dei tedeschi, ora nostri partner nella N.A.T.O. (North Atlantic Treaty Organization) e in Europa e, nel primo dopoguerra, meta di nostri emigranti.
Così dal 1946, traumatizzati, delusi e offesi, gli I.M.I. si rinchiusero in se stessi anche in famiglia e nove su dieci rimossero la memoria dei Lager e della loro scelta, forse inutile o sbagliata. Più di 5000 diari clandestini, per lo più annotati a futura memoria da ufficiali e rischiosamente salvati, ingiallirono nei cassetti dei ricordi rifiutati dalla editoria commerciale. Se si prescinde dai bestseller autobiografici di Giovannino Guareschi e Primo Levi e antologici di Giulio Bedeschi, venduti in libreria a un vasto pubblico, dal 1945 sono state pubblicate solo 400 memorie e antologie di testimonianze di reduci, per lo più edite in proprio e fuori commercio, con tirature modeste (300 - 2000 copie per titolo) e oggi di difficile reperimento. Coi 300 saggi storici, per lo più tardivi e anche questi a tiratura limitata e considerando gli invenduti e gli acquisti di terzi, i libri sull’internamento in mano ai reduci non raggiungono il loro numero: meno di un libro a testa, che poi non è detto che fosse letto! Sempre per via della "rimozione", solo 65.000 reduci (il 9%) si iscrissero nelle associazioni in quasi 60 anni.
Questa, in breve, è la storia misconosciuta degli I.M.I., schiavi di Hitler, "traditi, disprezzati, dimenticati" come li definì lo storico tedesco Gerhard Schreiber e oggi nuovamente beffati dal governo tedesco che, dopo averli illusi in questi ultimi anni, nega pretestuosamente il simbolico riconoscimento della loro schiavitù. Sono pure trascurati dallo Stato italiano, salvo tardivi attestati di patrioti, combattenti per la libertà, ecc. ai sempre meno numerosi viventi. Ma les jeux sont faits, rien ne va plus! e la storia verrà approfondita col poco che è stato archiviato. La storia vera la conosce Dio, l’altra la scrivono i vincitori, la revisionano i perdenti, la rimuovono i protagonisti, la costruiscono gli storici e la ignora la gente e la scuola. Soltanto da vent’anni i nostri istituti di storia contemporanea, universitari o del Movimento di Liberazione hanno scoperto questo filone di ricerche e solo loro possono salvare, chiosare e tramandare alle future generazioni le testimonianze sempre più scarse e vacillanti dei reduci superstiti, oggi ottuagenari, ridotti a un quinto, e in rapido esaurimento.
Ma i giovani devono sapere perché, come e a quale prezzo i nonni, volontari nei Lager, si siano battuti per dare anche a loro la libertà e perché alla famiglia privilegiarono la Patria, famiglia delle famiglie, ma sfrondata dalla retorica fascista. L’ 8 Settembre non segnò, tanto più per gli I.M.I. e i patrioti, la morte della Patria ma solo quella dello Stato autoritario che si polverizzò in una repubblica fantoccio sotto il tallone nazista, due governatorati nord-orientali del Reich, un regno del sud sotto controllo alleato e poi un mosaico saltuario di 17 repubbliche autonome partigiane. Ma l’identità della Patria era sempre quella dei secoli passati, anche se non più intesa come una patria imperialista.
La Costituzione Repubblicana, dei cui principi discutevano già nei Lager il bianco Giuseppe Lazzati, il rosso Alessandro Natta, verdi repubblicani e azzurri monarchici, sancì lo stato democratico e riaffermò l’unità d’Italia da difendere. Anche l’europeismo nacque nei Lager dall’incontro dei prigionieri di tutte le Nazioni.
Benché se ne discuta, la Resistenza fu solo marginalmente una guerra civile tra italiani: nel settembre del 1943 a Cefalonia, nelle montagne d’Italia e dei Balcani e nei Lager, gli italiani non si contrapposero a italiani ma all’invasore tedesco e solo dopo, di riflesso, anche al vassallo fascista. La Resistenza fu soprattutto una lotta di Liberazione che rinsaldava la continuità rinnovata della Patria.
E dobbiamo riflettere anche sul perdono, di cui oggi ancora si discute non senza retorica. Il perdono è più che una doverosa rinuncia all’odio e alla vendetta, né può ridursi a un colpo di spugna o all’oblio, ma è un atto sublime e individuale che non si può esercitare senza deleghe e in nome dei morti. Per la pietas latina e cristiana i morti sono uguali, ma erano diversi da vivi!
Per i cattolici la remissione della colpa presuppone il ricordo, senza il quale non si saprebbe cosa e chi perdonare, un pentimento, dei buoni propositi e un’espiazione, condizioni sempre meno attuali non essendoci quasi più vittime e colpevoli in vita. Di pentiti la storia ne ha incontrati pochi, né possiamo perdonare figli e nipoti dei criminali, perché estranei ai misfatti, né possiamo perdonare Hitler e i suoi due milioni e passa di attivi collaboratori fanatici od opportunisti, per i genocidi commessi, reati che non cadono mai in prescrizione!
I capi di stato però, in nome dei propri popoli e della pace, possono chiedere perdono o perdonare - ed è bene lo facciano - altri popoli già conniventi coi dittatori.
Ricordare? Dimenticare? Certo dimenticare è più comodo ma non è lecito perché apre la porta al revisionismo di parte e impedisce la ricostruzione storica obiettiva. Il futuro è già scritto nel passato, per questo dobbiamo ricordare anche se l’insegnamento della storia sembra quello di non insegnare. Ciò che è stato si ripete, sia pure con differenze, da più di mezzo secolo, in ogni parte del mondo e sotto i nostri occhi che non vogliono vedere: 250 conflitti in 115 paesi, migliaia di campi minati, migliaia di campi di concentramento, ben oltre 27 milioni di morti, 20 tra feriti e prigionieri, 50 tra profughi, rifugiati e sfollati, 27 di schiavi, un miliardo di affamati e sottoalimentati, sempre più poveri e ammalati, con altri milioni di morti e sempre milioni di bambini che pagano le colpe dei grandi.
Ora più che mai, il retaggio dei reduci alle nuove generazioni è il loro motto: "mai più guerre, mai più reticolati!"
Ragazzi, datevi da fare oggi, come allora i vostri nonni, per voi e i vostri figli, anche se la pace a volte può sembrare un miraggio o un’utopia!
Anche alcuni cittadini di Cinisello Balsamo furono internati militari, alcuni di loro non fecero più ritorno: Mario Arabelli, Andrea Betti, Riccardo Bozzolan, Carlo Casati, Pietro Cotto, Giuseppe Fugazza, Giuseppe Robotti, Roberto Villa e Mario Zaghi.
Renzo Tremolada fu liberato dalla prigionia ma morì pochi anni dopo per malattia contratta in guerra, mentre Francesco Verganti morì nel naufragio del piroscafo che trasportava i prigionieri verso i campi di detenzione.
Altri militari furono internati ma riuscirono a ritornare a casa alla fine del conflitto, ne citiamo alcuni: Angelo Cappelletti, Pietro Dallan e Ugo Ghezzi.
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