martedì 15 febbraio 2011

2. La progressiva distruzione della personalità

Si sarebbe potuto credere che la sorte comune, le comuni sofferenze, avessero portato ad un avvicinamento di tutti i prigionieri e dunque ad una forte solidarietà e alla cooperazione. E invece proprio nei lager era l’egoismo di ognuno a manifestarsi con maggiore forza, scaturito dall’individuo sotto l’impulso dello spirito di conservazione.

Nella vita dei lager ogni prigioniero mutava a tal punto la sua personalità da giungere a pensare soltanto a se stesso: si era disposti a compiere ingiustizie nei confronti dei compagni o ad ignorare le sofferenze altrui per ottenere un privilegio, un vantaggio. Scrive Sergio Coalova:
[…] la spersonalizzazione dell’individuo ha raggiunto lo scopo desiderato: ha cancellato ogni vincolo di fratellanza in questa massa di deportati, esaltando in ognuno un innaturale egoismo, quasi fosse l’unico mezzo per sopravvivere. Tutto ciò con le debite eccezioni, ma l’esperienza di ogni giorno ci agggredisce con tutta la sua crudezza portandoci fatalmente a pensare sempre più a noi stessi.
E aggiunge:
nel lager chi riuscirà a sopravvivere lo dovrà unicamente ai suoi propri mezzi e alla sua fortuna. Nulla c’è da aspettarsi da chi sta meglio, la lotta per la vita ci ha fatti barricare in un comprensibile egoismo e ci ha resi indifferenti alle sofferenze di chi ci sta attorno. Ma la speranza che non ci abbandona agisce sul nostro spirito di conservazione e ci porta, per vie traverse, ad accentuare il nostro individualismo, a chiuderci in noi stessi, nel tentativo di superare meglio le prove che ancora ci attendono.
Vi erano prigionieri che arrivavano a tiranneggiare senza misericordia i compagni di sventura, se ciò serviva a rendere un po’ più tollerabile la loro vita. Particolarmente brutale era il comportamento dei kapò, i criminali, anch’essi detenuti, ma con funzioni di comando, i quali volevano mettersi in buona luce presso i guardiani e i sorveglianti; essi ottenevano privilegi e vivevano meglio nel campo, ma a spese degli altri prigionieri, che tormentavano fisicamente e psichicamente e addirittura, per puro sadismo, maltrattavano a tal punto da farli morire.
Tuttavia, soprattutto i prigionieri ancora sensibili, non ancora intaccati dalla durezza della vita nel campo, provavano profonde sofferenze morali di fronte a questi atteggiamenti: i maltrattamenti da parte delle guardie erano sì terribili ma non li ferivano così profondamente; erano il contegno di questi “capi” e le loro angherie contro gli stessi compagni ad avere l’effetto più deprimente sulla psiche dei prigionieri.
Ma perché tutto questo? Perché a lungo andare la prigionia trasformava le persone. Lo shock iniziale derivante dal fatto di trovarsi privati dei diritti civili e gettati illegalmente in carcere, il trauma di subire per la prima volta torture intenzionali e inimmaginabili, il tormento di vedere morire i propri compagni senza poterli aiutare provocavano un profondo disagio. Ma a poco a poco quasi tutti i prigionieri perdevano i loro benevoli sentimenti e finivano per preoccuparsi solo per la propria sopravvivenza.
Ognuno reagiva comunque in maniera diversa: c’era chi cadeva nella più profonda indifferenza, chi manifestava sintomi schizofrenici o tendenze suicide, chi perdeva la memoria e chi smetteva semplicemente di pensare. Avveniva una vera e propria scissione psichica tra l’Io a cui accadevano le cose e l’Io a cui in realtà non importava nulla di nulla, indifferente e distaccato.
Quasi tutti i prigionieri ebbero una regressione a livello infantile e svilupparono quindi comportamenti tipici dell’infanzia e del periodo adolescenziale: prevaleva lo scoraggiamento, non vi erano progetti per il futuro, le amicizie nascevano e si scioglievano rapidamente, si perdeva la cognizione del tempo e si raccontavano bugie per fare gli “spacconi”.
Non si era più se stessi e non si credeva più a niente. «Non si può continuare a credere in un mondo che ha cessato di considerare l’uomo come l’uomo: che ti “dimostra” che non sei più un uomo. Si comincia a dubitare: si rinuncia ad avere fede in un ordinamento dell’universo il cui Dio abbia un suo posto preciso. Si comincia a credere che Dio sia in vacanza, altrimenti tutto questo non sarebbe possibile. Deve essere assente e non ha nessuno che lo rappresenti», dice Simon Wiesenthal.
Un barlume di speranza in alcuni, però, rimaneva: «In quei tempi eravamo pronti a vedere un simbolo in tutto. […] Dio era in vacanza, e in Sua assenza altri si erano assunti il compito di inviarci segnali e presagi. […] L’eterno ottimismo degli ebrei escludeva ogni argomento della ragione. […] Ci si perdeva in fantasticherie, solo per evadere dall’atroce e tragica realtà. E la ragione sarebbe stata un ostacolo. Ci si rifugiava nel sogno e dal sogno si cercava in ogni modo di non svegliarsi». Quali erano i sogni? Erano sogni di vendetta, di ribellione contro quei nazisti crudeli che distruggevano l’uomo. «Perché Dio ha abbandonato anche i bambini?».
I prigionieri non credevano possibile il perdono di quegli assassini… Come si poteva perdonare chi aveva ucciso migliaia di persone? Dice l’ebreo Josek in Il Girasole che il tormento che attanaglia un SS in punto di morte, il rimorso per tutte le uccisioni provocate «è solo una piccola parte del suo castigo.
Che cosa fare? Perdonare o vendicarsi? Neanche i sopravvissuti oggi riescono a darsi una risposta. Dice Sergio Coalova: «Dopo essere sopravvissuto a tante brutture, a tanto odio, sento un bisogno irrefrenabile di abbracciare tutto il mio prossimo, di esprimere sentimenti di amore e di SPERANZA assieme ad una grande smania di ricominciare a vivere. Sono trascorsi quasi quarant’anni da quelle prime riflessioni, ma ancora oggi, non più giovane e certo disincantato, nel rievocare quelle vicende dolorose, mi sorprendo a pensare ancora in termini di solidarietà, di speranza e di amore: NON DI ODIO».

Ma «chi non ha provato sulla sua pelle, non potrà mai capire».






Mauthausen. La scalinata della cava.
La scalinata della cava in costruzione e finita. Luogo di infiniti tragici massacri da parte delle SS e di quell’ignobile Kapò, Hans l’assassino, che per ingraziarsi il comando del campo ammazzava spesso e volentieri.

I 186 gradoni della cava di pietra

“Come si sta qui?” “Qui si muore?”.
Bastano queste parole per descrivere Mauthausen ed è sufficiente la domanda, che suona retorica: “possibile che ci siano dei luoghi dove si sta peggio di qui?”. La morte come quotidianità, una morte innanzi tutto morale, che conduceva allo straniamento dell’uomo e all’annientamento della stessa idea di uomo.
Nei campi di sterminio l’istinto di sopravvivenza prevaleva, portando all’egoismo e all’insensibilità davanti alla violenza. L’unica cosa che permetteva di continuare ad avere qualcosa di umano era la speranza di tornare a casa: ai deportati, ridotti a “larve umane”, infatti, paradossalmente, tornavano alla mente le memorie d’infanzia guardando ai camini dei forni crematori.
La crudeltà era dettata dal principio di fondo dei lager: l’eliminazione sistematica. Molti sopravvissuti hanno insistito sull’esistenza di diversi modi di uccidere, addirittura definendone alcuni “fantasiosi”, come per esempio il salto nel vuoto, il “bacio del cane” o il lavoro alla cava di pietra. Quest’ultimo mi ha particolarmente colpita: si doveva percorrere una scalinata di centoottantasei gradoni, dieci volte al giorno trasportando massi pesanti. I più sostengono che non era un lavoro, ma uno strumento di tortura, “un sistema complicato di eliminazione”. Proprio il fatto che la cava sia stata definita, nelle memorie dei sopravvissuti che ho potuto consultare, come “luogo speciale” mi ha incuriosita. “Si tratta di una tecnica mostruosa per uccidere masse di deportati in un modo meno «consueto» e più «spettacolare».” Alla cava, infatti, si moriva per sfinimento ed “entro quindici giorni passi per il camino”: ciò significava morire senza lasciare traccia.
Le SS erano il vertice della gerarchia a Mauthausen e manifestavano tutto il loro sadismo nel piacere provato dagli aguzzini per la violenza gratuita e per lo spettacolo terrificante che forniva la scalinata, costituita da gradini “erti, faticosissimi, che si potevano salire soltanto a ginocchioni, buttandosi la pietra davanti e spingendola col petto”. Il lavoro alla cava era anche destinato alla “compagnia di disciplina” che era un kommando di punizione. Per coloro che non ce la facevano, “sullo spiazzo che dà accesso alla scala le SS piazzano le mitragliatrici che falciano i deportati che la risalgono oppressi dal carico delle pietre”; altri venivano spinti giù da quella, o ancora uccisi con un colpo di pistola e - talvolta - con una martellata alla testa. Molti venivano oppressi dal peso della pietra che andava dai quindici ai trenta chili: spesso si accendevano forti contese tra i prigionieri per accaparrarsi la pietra meno pesante. Allo spettacolo agghiacciante veniva ad aggiungersi la crudeltà di singole SS, le quali facevano sgambetti ai deportati, così i corpi di questi contribuivano ad accrescere la massa dei cadaveri al fondo della scalinata.
Ciò che colpisce della cava è l’unione della “fredda scientificità” con la “violenza gratuita”, tratti caratteristici dei lager. Infatti, i prigionieri morivano entro poco tempo e, se possibile, con un’aggiunta di sofferenza.
Non credo ci sia una risposta umanamente completa, corretta e accettabile al perché di tanta efferatezza. Sono convinta che l’egoismo unitamente alla presunzione di superiorità siano parte integrante del nostro essere e che nel caso specifico, portati all’eccesso e all’esasperazione, abbiano condotto alla realizzazione di un piano di sterminio senza eguali nella storia dell’umanità.
Per quanto riguarda le persone che, nonostante le testimonianze e le diverse tipologie di fonti, ancora persistono nel dubbio o peggio sono restie a credere, ritengo siano quelle che hanno paura di guardarsi allo specchio e di rendersi conto che gli istinti più profondi e nascosti dell’essere umano sono i più terribili.
Sono perciò profondamente certa che ricordare sia fondamentale, anche se molto difficile; soprattutto perché “i sopravvissuti, consapevoli della drammatica divisione che li separava sia dalle vittime, sia dal mondo, non trovano parole adeguate a descrivere la profondità della propria sofferenza e disperazione". Questo problema - del non poter dire adeguatamente e non dover comunicare brutalmente - è per loro logorante: ricordare significa infatti rivivere. Anche in chi la legge o la ascolta, la narrazione delle testimonianze suscita incubi e turbamenti interiori.
Ciò trova conferma nella mia esperienza. Infatti, ho pianto leggendo le parole scritte da Sergio Coalova che descrivono i momenti della tanto agognata liberazione, e ho più volte vissuto incubi notturni dopo aver letto le terribili quanto drammatiche umiliazioni e sofferenze subite dai prigionieri: emozioni e sensazioni che mi hanno profondamente toccata, e che ho vissuto ancor più intensamente quando, nell’agosto del 2000, sono stata a Mauthausen.




















                                                                     Dalla cava al campo





















                                                          La "compagnia di disciplina"

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