«L’ispettorato si distinse per l’uso sistematico della tortura sugli arrestati e la villa di via Bellosguardo divenne nota per le urla dei seviziati che si sentivano dall’esterno. Un’altra sede dell’ispettorato fu l’attuale stazione dei carabinieri di via Cologna a Trieste, che è anche l’unica sede dell’organismo ancora esistente. Da notare che il torturatore più efferato, l’ispettore di polizia Gaetano Collotti (Palermo, 1920 – Treviso, 28 aprile 1945) comandante della famigerata “Banda Collotti”, è stato insignito nel 1954 dalla Repubblica Italiana di medaglia di bronzo al valore per il comportamento tenuto durante un’operazione antipartigiana e che diversi componenti l’ispettorato caduti durante la guerra o nella resa dei conti a guerra finita sono ricordati sulla grande lapide che nell’atrio della Questura di Trieste ricorda i poliziotti caduti nell’espletamento del proprio dovere».
Per un’ulteriore approfondimento su questo soggetto si rimanda al lavoro scritto, con dovizia di particolari, da Claudia Cernigoi dal titolo: “Operazione foibe a Trieste” (Edizioni Kappa Vu, Udine 1997 ) e al sito web http://nuovaalabarda.org/ dal quale sono state tratte le immagini inserite in questo post.
Va detto, per inciso, che l’ispettore Gueli prima di essere incaricato a svolgere questa funzione aveva fatto parte del corpo di sorveglianza di Mussolini quando si trovava recluso sul Gran Sasso, sostituendo l’ispettore generale Saverio Pòlito, rimasto gravemente ferito in seguito ad un incidente automobilistico. Da quella esperienza, poco lusinghiera, si trascinò dietro con lui a Trieste anche diversi agenti.
All’indomani della firma dell’Armistizio l’Ispettorato fu momentaneamente sciolto dal governo repubblichino, ma subito dopo fu ricostituito come Ispettorato Speciale affidato sempre alle cure dell’ispettore Gueli il quale, tuttavia, si guardò bene dal mettersi in luce in prima persona, restando opportunamente in disparte e lasciando che a compiere il “lavoro sporco” fosse un giovane e ambizioso vicecommissario, tale Gaetano Collotti.
Nel febbraio del 1944 il prefetto di Trieste Tamburini nominò maresciallo lo squadrista Sigfrido Mazzuccato, incaricandolo di costituire un reparto di polizia ausiliaria (la squadra politica che avrà sede nella via San Michele, nota anche come “squadra Olivares” [23]) all’interno dell’Ispettorato stesso. Di questo corpo fecero parte circa 200 ausiliari, per lo più squadristi locali; di essi 170 erano pregiudicati per reati comuni. Il reparto fu sciolto nel settembre del ‘44 per ordine delle autorità germaniche e lo stesso Mazzuccato fu spedito in Germania: aveva commesso tali e tante nefandezze da far inorridire persino le S.S. [24].
Dagli atti del processo Gueli, avvenuto nel dopoguerra [25], stralciamo le seguenti testimonianze.
Testimonianza del dottor Paul Messiner, austriaco, che nel 1944 ricopriva la carica di capo-sezione Giustizia del Supremo Commissariato della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico:
«Mi è stato riferito che nell’anno 1944 l’Ispettorato di P.S. di via Bellosguardo, trasferitosi dopo in via Cologna, procedette all’arresto dei fratelli Antonio e Augusto Cosulich (armatori che avevano finanziato il C.L.N., n.d.a.). Il barone Economo si rivolse al Supremo Commissario dott. Rainer per ottenere l’immediato trasferimento dei detenuti dall’Ispettorato alla sede delle S.S. di piazza Oberdan, a causa dei noti sistemi di tortura dei detti agenti italiani, usati contro patrioti. Il Supremo Commissario accolse subito la richiesta e disse che la polizia tedesca non usava i metodi crudeli e le sevizie escogitati dall’Ispettorato [26]… Ho saputo da diverse persone e tra queste dall’avv. Tončič, che la polizia italiana usava metodi barbari e sadici contro i detenuti. Ho parlato e fatto rapporto scritto al dott. Rainer… Mi sono state date assicurazioni in merito. (…) Il giudice Anasipoli sa che ho fatto arrestare due agenti dell’Ispettorato pur non rientrando nelle mie attribuzioni. (…) Ho dato ordine che i tribunali provinciali italiani non potessero giudicare antifascisti e che se avessero violato tale ordine sarebbero stati arrestati. (…)».
Poi c’è la testimonianza del giudice Anasipoli, allora giudice di collegamento tra la Corte di Appello, Procura Generale, e la sezione giudiziaria retta dal dott. Messiner:
«Ricordo che un giorno il dott. Messiner ebbe casualmente a comunicarmi di essere stato costretto a far arrestare due funzionari di P.S. dei quali ricordo il nome del Mazzuccato Sigfrido (l’altro era Miano Domenico, n.d.a.)… E ciò in seguito a numerose lagnanze presentategli relativamente a maltrattamenti violenze, percosse usate da detti agenti contro persone arrestate».
Nazisti tutori dei diritti civili a Trieste, dunque? Forse no, vediamo la testimonianza dell’avvocato Tončič:
«Slavik mi disse di aver fatto un esposto al capo della sezione giustizia dell’ex-Commissariato dott. Paul Messiner e me lo mostrò. In tale esposto oltre a narrare quanto contro di lui era stato commesso dagli agenti (dell’Ispettorato, n.d.a.), espose anche i maltrattamenti e le violenze carnali commesse ai danni di una ragazza diciassettenne e di una signora di Trieste… Il dott. Slavik fu arrestato poco tempo dopo dalle S.S. germaniche e deportato a Mauthausen dove purtroppo trovò la morte».
Racconta invece Pietro Prodan, che fu arrestato sedicenne, nel 1944, assieme alle sorelle Nives e Nerina: «Tra i poliziotti che procedettero al nostro arresto c’era anche Sigfrido Mazzuccato». Dopo un mese e mezzo di sequestro in via Bellosguardo, dove furono picchiati tutti e tre, anche da Collotti in persona, «mi hanno portato in Germania al campo di Buchenwald dove sono stato liberato dagli alleati. Nello stesso campo di concentramento è venuto nel novembre del 1944 anche il maresciallo Mazzuccato che la vigilia di Natale è stato, verso mezzanotte, trasportato nel forno crematorio e gettato in esso. Ho visto coi miei occhi la cartella scritta dai tedeschi in cui si diceva: “Mazzuccato, deceduto per catarro intestinale il 24 dicembre 1944”».
Ma chi era, in realtà, l’ufficiale di Pubblica Sicurezza (sic!) Gaetano Collotti?
A ventidue anni è un vice commissario in servizio all’Ispettorato di Pubblica Sicurezza di Triestecon un organico di circa 180 uomini[1]. Nell’ufficio di investigazione speciale destinato alla lotta contro l’estremismo politico in opposizione al regime fascista, si contraddistingue nell’aprile del1943 quando viene coinvolto in una sparatoria contro i partigiani sloveni, uccidendone uno, ferendone un altro e catturandone un terzo. Diversamente da altri suoi colleghi che dopo l’8 settembre, passeranno nelle file dei partigiani, Gaetano Collotti aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. All’interno dell’Ispettorato che ha sede a Trieste, in via Bellosguardo n. 8, nella cosiddetta “Villa Triste” e che ha come comandante Giuseppe Gueli, crea la cosiddetta “Banda Collotti”. Verso la fine della guerra, tenta la fuga, ma è catturato ad un posto di blocco con un carico d’oro a Olmi di San Biagio di Callalta (TV) assieme ad alcuni suoi agenti e all’amante in attesa di un figlio. Tutti furono portati alla Cartiera di Mignagola. I partigiani li eliminarono, compresa la donna, e l’oro scomparve, diviso tra partigiani democristiani e comunisti. L’8 settembre entra nel Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste del quale viene nominato presidente il 13 giugno 1944, dopo che il primo comitato era stato annientato dai nazifascisti. Si impegna attivamente nell’organizzazione delle formazioni resistenziali nel loro finanziamento e approvvigionamento di armi e viveri.
Per saperne di più in merito a questa triste vicenda che riguardò la cosiddetta “Ville Triste” di Trieste, vi lascio alla lettura di questo articolo scritto, con dovizia di particolari, da PAOLO RUMIZ e pubblicato proprio quest’oggi sul settimanale “L’Espresso” che, inevitabilmente, suscita nel lettore un certo coinvolgimento emotivo offrendo lo spunto per una puntuale riflessione quanto mai doverosa su questi efferati episodi sovente relegati nel dimenticatoio e rimossi dalla memoria collettiva.
LA REGINA DI “VILLA TRISTE”. L’EBREA TRIESTINA CHE SUPERÒ LE TORTURE.
Nella sua città Paolo Rumiz ritrova il luogo dove sorgeva la sua prima casa degli spiriti. Una dimora ebrea abbandonata quando Mussolini proclamò a Trieste le leggi antirazziali. Oggi è stata rasa al suolo. Una donna che lì aveva abitato e che lì era stata torturata dai fascisti per tre mesi racconta la sua storia
La mia prima casa degli spiriti la trovai cinquant’anni fa a Trieste, a due passi da casa. Per andare a scuola, scendevo a piedi lungo una via di nome Bellosguardo. Un mattino c’era un bel sole e io ero in buon anticipo sui tempi, così mi misi a osservare con attenzione le case intorno. Subito mi accorsi che alla strada mancavano alcuni numeri pari. Fra il 6 e il 12 c’era un vuoto e i segni di una casa abbattuta.
Passai la mattina a scuola con quell’enigma sullo stomaco, e al ritorno chiesi ai miei se ne sapevano qualcosa. “C’era una villa di ebrei, abbandonata con le leggi razziali” dissero. Quelle leggi, avrei saputo più tardi, Mussolini le aveva proclamate a Trieste, la città con la più grande comunità ebraica d’Italia.
C’era una casa, dunque. Perché era stata rasa al suolo? Perché quel vuoto numerico non era stato riempito? Quali fantasmi abitavano il luogo? I passavo e ripassavo in cerca di risposte per via Bellosguardo, dove venivano velocemente costruite nuove villette. Solo anni dopo risolsi l’enigma, quasi per caso. In guerra l’edificio era stato requisito dai torturatori fascisti per i loro interrogatori. Il capo era tale Gaetano Collotti, un tipo distinto che andava a messa ogni mattina prima di iniziare il lavoro. Per non far sentire le urla dei disgraziati – in gran parte sloveni del Carso e altri antifascisti di lingua italiana – faceva sparare intorno musica ad alto volume.
Quando mi dissero che il luogo era chiamato “Villa Triste”, sobbalzai. Ma certo, tutto quadrava. La famosa “Villa Triste” che sembrava far rima con Trieste. In molti mi avevano già fatto quel nome, ma nessuno mi aveva indicato un sito preciso. La casa si era smaterializzata, pochi sapevano veramente dove si trovasse. E io l’avevo avuta per anni sotto il naso. Chi l’aveva fatta abbattere? Perché non era stata posta una lapide? Chi copriva quell’orrore? Tutto indicava la fretta di cancellare la memoria. Capii che a Trieste, con Tito alle porte, l’anticomunismo patriottico aveva oscurato l’antifascismo e la Resistenza. Constatai che gli orrori delle foibe aveva finito per occultare i misfatti di gente come Collotti.
Dei sopravvissuti alle torture nessuno si occupava, salvo ricercatori di nicchia e la comunità slovena. Quell’amnesia mi divenne col tempo insopportabile e un giorno decisi di cercare per conto mio. Villa Triste non c’era più, ma i torturatori nel ’44 si erano trasferiti altrove, in una stazione dei Carabinieri poi dismessa negli anni Novanta, in via Cologna al numero 8. L’edificio c’era ancora. Ci andai, tutto era quasi intatto. Le cantine con le feritoie dove non era possibile stare in piedi. Le grate alle finestre. Le porte, gli infissi, gli abbaini della soffitta, il secondo piano quasi intatto. Gente era morta lì dentro, qualcuno si era suicidato buttandosi nel cortile, ma i CC avevano convissuto tranquillamente con i fantasmi, probabilmente ignorandoli.
Una lapide, almeno lì, era stata posta. Molti anni dopo. Non mi bastava, cercavo i sopravvissuti e fu una giornalista della Rai slovena ad aiutarmi, Loredana Gec. Mi fece un nome: Sonia Amf Kanziani, nata il 20 gennaio del 1927 a Smarje presso Trieste, torturata per tre mesi in via Bellosguardo e grande invalida. Le telefonai. Rispose con voce ferma “Venga domani” e io fui subito in ansia per quell’incontro. Temevo di riaprire ferite, immaginavo il confronto con un corpo segnato dal dolore e dal rancore, il fantasma di una donna. L’indomani salii le scale con trepidazione e quando la vidi, lì ad aspettarmi sul pianerottolo dell’ultimo piano, rimasi senza fiato. Appoggiata alla ringhiera c’era una regina, dal portamento eretto di una cinquantenne sana, gli zigomi forti e gli occhi verde-foglia pieni di luce. Tutto in lei diceva una cura meticolosa di sé. L’abito, la collana, l’anello, la pettinatura, lo smalto delle unghie, l’ordine perfetto della casa. Era quella la sua rivincita.
“Non si fidi dell’apparenza”, disse. “Per darle la mano, devo sollevare il braccio destro con la mano sinistra”. Il suo corpo, apparentemente perfetto, era tenuto in piedi da cure assidue, quattro mesi d’ospedale all’anno. Aveva tredici cicatrici nei polmoni e una tubercolosi passata alle ossa. Avevo scolpita davanti l’immagine stessa del Secolo Breve. Sonia viveva sola. Aveva perso il marito da trent’anni. Il padre era stato ucciso dai fascisti negli anni Trenta, con una bottiglia di nafta ficcata in gola. Il fratello era morto combattendo con la Resistenza. La mamma gliel’avevano liquidata i partigiani, sospettosi di una combutta con i fascisti. Parlò, a bassa voce, e il discorso discese come un fiume, senza rancore e senza lacrime, come se riguardasse un’altra persona. Presi appunti senza fare domande.
Le carceri erano le cantine dei gesuiti. Si stava in otto in uno spazio di quattro metri quadrati con un bugliolo maleodorante. La brodaglia del pranzo brulicava di vermi. Sonia venne portata quotidianamente a Villa Triste, dove le furono rotti i piedi, cavate le unghie e chiuse le mani nelle porte. Le vertebre furono lesionate. Il peggio, mi disse, erano le urla altrui, quelle degli uomini soprattutto, quando venivano loro bruciati i testicoli con un ferro rovente. “Mi ustionarono la nuca e i capezzoli con sigarette, e mi sottoposero alla tortura della panca, un tubo che ti riempiva d’acqua e poi una pressione sulla pancia che ti svuotava attraverso naso, bocca e orecchie”.
“Un giorno mi appesero con altre tre donne. Avevamo solo gli alluci che toccavano terra. Guardi, porto ancora ai polsi i segni delle corde. Ci picchiavano e Collotti guardava, impassibile. Diceva: se parli ti aiuteremo. Ma aveva due cani lupo pronti a strapparci la carne. A un tratto mormorai in sloveno: Gesù, a te ti hanno tormentato per tre giorni, io sono qui da tre mesi. Tu ci hai messo tre ore a morire, io muoio ogni giorno… Allora mi percossero ancora più forte, gridando che non dovevo parlare quella lingua schifosa. Furono in molti a vedermi uscire svenuta e piena di sangue dalla stanza. A guerra finita un medico mi visitò e mi chiese come avevo fatto a uscire viva da una simile pena”.
Continuò: “Scappai col ribaltone del 25 luglio ’43. Un carceriere lì mi disse: vai, ora o mai più. Fui nascosta da un contadino, che aveva già cinque figli cui badare. Mi salvai così”. Ma la moviola della memoria non si fermava, viaggiò all’indietro fino alla morte del padre, obbligato a bere nafta dai fascisti. “Tornò a casa, ci mise a letto e ci suonò come sempre la ninnananna col violino. Poi crollò a terra con lo stomaco perforato. Morì tre giorni dopo, non aveva ancora trent’anni”. Sorrise: “Chi ti crede se racconti questo? Nessuno… Nemmeno ora che le prove ci sono…”. Chiesi della vecchia casa. Rispose: “E’ rimasta viva solo una vite secolare. Tutto il resto è andato”. Tutto, pensai, tranne quei numeri mancanti in via Bellosguardo.
Passai la mattina a scuola con quell’enigma sullo stomaco, e al ritorno chiesi ai miei se ne sapevano qualcosa. “C’era una villa di ebrei, abbandonata con le leggi razziali” dissero. Quelle leggi, avrei saputo più tardi, Mussolini le aveva proclamate a Trieste, la città con la più grande comunità ebraica d’Italia.
C’era una casa, dunque. Perché era stata rasa al suolo? Perché quel vuoto numerico non era stato riempito? Quali fantasmi abitavano il luogo? I passavo e ripassavo in cerca di risposte per via Bellosguardo, dove venivano velocemente costruite nuove villette. Solo anni dopo risolsi l’enigma, quasi per caso. In guerra l’edificio era stato requisito dai torturatori fascisti per i loro interrogatori. Il capo era tale Gaetano Collotti, un tipo distinto che andava a messa ogni mattina prima di iniziare il lavoro. Per non far sentire le urla dei disgraziati – in gran parte sloveni del Carso e altri antifascisti di lingua italiana – faceva sparare intorno musica ad alto volume.
Quando mi dissero che il luogo era chiamato “Villa Triste”, sobbalzai. Ma certo, tutto quadrava. La famosa “Villa Triste” che sembrava far rima con Trieste. In molti mi avevano già fatto quel nome, ma nessuno mi aveva indicato un sito preciso. La casa si era smaterializzata, pochi sapevano veramente dove si trovasse. E io l’avevo avuta per anni sotto il naso. Chi l’aveva fatta abbattere? Perché non era stata posta una lapide? Chi copriva quell’orrore? Tutto indicava la fretta di cancellare la memoria. Capii che a Trieste, con Tito alle porte, l’anticomunismo patriottico aveva oscurato l’antifascismo e la Resistenza. Constatai che gli orrori delle foibe aveva finito per occultare i misfatti di gente come Collotti.
Dei sopravvissuti alle torture nessuno si occupava, salvo ricercatori di nicchia e la comunità slovena. Quell’amnesia mi divenne col tempo insopportabile e un giorno decisi di cercare per conto mio. Villa Triste non c’era più, ma i torturatori nel ’44 si erano trasferiti altrove, in una stazione dei Carabinieri poi dismessa negli anni Novanta, in via Cologna al numero 8. L’edificio c’era ancora. Ci andai, tutto era quasi intatto. Le cantine con le feritoie dove non era possibile stare in piedi. Le grate alle finestre. Le porte, gli infissi, gli abbaini della soffitta, il secondo piano quasi intatto. Gente era morta lì dentro, qualcuno si era suicidato buttandosi nel cortile, ma i CC avevano convissuto tranquillamente con i fantasmi, probabilmente ignorandoli.
Una lapide, almeno lì, era stata posta. Molti anni dopo. Non mi bastava, cercavo i sopravvissuti e fu una giornalista della Rai slovena ad aiutarmi, Loredana Gec. Mi fece un nome: Sonia Amf Kanziani, nata il 20 gennaio del 1927 a Smarje presso Trieste, torturata per tre mesi in via Bellosguardo e grande invalida. Le telefonai. Rispose con voce ferma “Venga domani” e io fui subito in ansia per quell’incontro. Temevo di riaprire ferite, immaginavo il confronto con un corpo segnato dal dolore e dal rancore, il fantasma di una donna. L’indomani salii le scale con trepidazione e quando la vidi, lì ad aspettarmi sul pianerottolo dell’ultimo piano, rimasi senza fiato. Appoggiata alla ringhiera c’era una regina, dal portamento eretto di una cinquantenne sana, gli zigomi forti e gli occhi verde-foglia pieni di luce. Tutto in lei diceva una cura meticolosa di sé. L’abito, la collana, l’anello, la pettinatura, lo smalto delle unghie, l’ordine perfetto della casa. Era quella la sua rivincita.
“Non si fidi dell’apparenza”, disse. “Per darle la mano, devo sollevare il braccio destro con la mano sinistra”. Il suo corpo, apparentemente perfetto, era tenuto in piedi da cure assidue, quattro mesi d’ospedale all’anno. Aveva tredici cicatrici nei polmoni e una tubercolosi passata alle ossa. Avevo scolpita davanti l’immagine stessa del Secolo Breve. Sonia viveva sola. Aveva perso il marito da trent’anni. Il padre era stato ucciso dai fascisti negli anni Trenta, con una bottiglia di nafta ficcata in gola. Il fratello era morto combattendo con la Resistenza. La mamma gliel’avevano liquidata i partigiani, sospettosi di una combutta con i fascisti. Parlò, a bassa voce, e il discorso discese come un fiume, senza rancore e senza lacrime, come se riguardasse un’altra persona. Presi appunti senza fare domande.
Le carceri erano le cantine dei gesuiti. Si stava in otto in uno spazio di quattro metri quadrati con un bugliolo maleodorante. La brodaglia del pranzo brulicava di vermi. Sonia venne portata quotidianamente a Villa Triste, dove le furono rotti i piedi, cavate le unghie e chiuse le mani nelle porte. Le vertebre furono lesionate. Il peggio, mi disse, erano le urla altrui, quelle degli uomini soprattutto, quando venivano loro bruciati i testicoli con un ferro rovente. “Mi ustionarono la nuca e i capezzoli con sigarette, e mi sottoposero alla tortura della panca, un tubo che ti riempiva d’acqua e poi una pressione sulla pancia che ti svuotava attraverso naso, bocca e orecchie”.
“Un giorno mi appesero con altre tre donne. Avevamo solo gli alluci che toccavano terra. Guardi, porto ancora ai polsi i segni delle corde. Ci picchiavano e Collotti guardava, impassibile. Diceva: se parli ti aiuteremo. Ma aveva due cani lupo pronti a strapparci la carne. A un tratto mormorai in sloveno: Gesù, a te ti hanno tormentato per tre giorni, io sono qui da tre mesi. Tu ci hai messo tre ore a morire, io muoio ogni giorno… Allora mi percossero ancora più forte, gridando che non dovevo parlare quella lingua schifosa. Furono in molti a vedermi uscire svenuta e piena di sangue dalla stanza. A guerra finita un medico mi visitò e mi chiese come avevo fatto a uscire viva da una simile pena”.
Continuò: “Scappai col ribaltone del 25 luglio ’43. Un carceriere lì mi disse: vai, ora o mai più. Fui nascosta da un contadino, che aveva già cinque figli cui badare. Mi salvai così”. Ma la moviola della memoria non si fermava, viaggiò all’indietro fino alla morte del padre, obbligato a bere nafta dai fascisti. “Tornò a casa, ci mise a letto e ci suonò come sempre la ninnananna col violino. Poi crollò a terra con lo stomaco perforato. Morì tre giorni dopo, non aveva ancora trent’anni”. Sorrise: “Chi ti crede se racconti questo? Nessuno… Nemmeno ora che le prove ci sono…”. Chiesi della vecchia casa. Rispose: “E’ rimasta viva solo una vite secolare. Tutto il resto è andato”. Tutto, pensai, tranne quei numeri mancanti in via Bellosguardo.
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