domenica 9 giugno 2013

Piccoli ebrei come Pelè nel film. Una partita per salvarsi la vita

I fratelli Reichenbach non l’avevano mai raccontato: evitarono i lager con una fuga che ricorda la celebre storia cinematografica

La realtà supera la fantasia Sfuggono ai nazifascisti dal campo da calcio, come in «Fuga per la vittoria»


Anche quella dei fratelli Gian Giacomo e Giancarlo Reichenbach è stata una fuga per la vittoria e una fuga per la vita. Ma la loro partita — come nel film Escape to Victory del 1981, diretto da John Huston — non è stata una parata di assi del pallone a cui parteciparono attori e fuoriclasse come il brasiliano Pelé, tre volte campione del mondo, il capitano della nazionale inglese Bobby Moore, il belga Van Himst, il polacco Deyna, l'argentino Ardiles o Sylvester Stallone. La partita dei Reichenbach si giocava tra ragazzi di Cerro e sfollati. Nessuno sapeva che in palio c'era la vita, come invece nella finzione cinematografica o come tragicamente è accaduto nella partita della morte, a cui il film si ispirò, giocata a Kiev il 9 agosto 1942 fra lo Start, una squadra mista di giocatori della Dinamo e del Lokomotiv, e la squadra degli ufficiali tedeschi della Luftwaffe.
I Reichenbach erano figli dell'alta borghesia veronese. Nel settembre 1943 la vacanza a Cerro dei due ragazzi, 16 anni Gian Giacomo e 13 Giancarlo, ebbe una fine brusca. «Eravamo alla tradizionale partita domenicale», racconta Domenico Scala, medico odontoiatra, allora studente ventenne a Padova e primo laureato di Cerro in farmacia, uno che alla partita non mancava mai, sul campetto vicino al cimitero, oggi diventato piazzale Alferia. «I due Reichenbach li conoscevamo tutti. Sapevamo che erano ebrei, ma nessuno di noi tradiva l'amicizia».
«Ero loro coetaneo», aggiunge Gaetano Zanella. «Ero salito a Cerro da Verona dove studiavo, ma quell'anno anticiparono la chiusura estiva delle scuole e quando arrivai a Cerro loro erano già qui». Zanella non sapeva che per le leggi razziali, promulgate nel 1938, a Gian Giacomo e a Giancarlo era preclusa la frequenza delle scuole. Potevano dare gli esami come privatisti, ma non frequentare le lezioni. «A Cerro non c'era nessuna discriminazione nei loro confronti», aggiunge Zanella, «ma poi sono spariti improvvisamente e non ho più saputo nulla».
A organizzare quelle partite era Ferdinando Chiampan, il futuro sindaco di Cerro e presidente dello scudetto dell'Hellas Verona. Già allora, sedicenne, coltivava la passione del calcio. «Giocavano», racconta Chiampan, «Emilio Folgore, artista che aveva lavorato a Parigi, gli Isalberti, i Grazioli, i Domenichini, Enzo Paris, gli Scapini e gli Sterzi, titolari di una grande cantina a San Martino Buon Albergo. I Reichenbach? Ricordo che avevano paura, come tutti noi del resto, che eravamo in età a rischio di essere mandati sotto le armi».
La fuga dei ragazzi ebrei passò quasi inosservata. Ricorda Scala: «Eravamo verso la fine della partita e i due ragazzi lasciarono il campo senza dare spiegazioni. Non ricordo come si chiamassero: so solo che non li ho più rivisti».
Altri in paese hanno raccontato l'episodio per anni, ma senza poterne immaginare il seguito. I protagonisti, infatti, non avevano mai parlato. Solo oggi, a distanza di quasi 66 anni, Gian Giacomo e Giancarlo Reichenbach rievocano quei momenti drammatici. Gian Giacomo racconta che il momento della fuga dal campo da calcio non gli è rimasto impresso come memorabile, al momento: «Dev'essere stato nostro padre a organizzare la cosa e a farci venire via dalla partita. Le date coincidono con la fuga per la salvezza che compimmo in quei giorni di settembre verso la Svizzera». Della partita a Cerro Giancarlo ricorda che fu giocata sotto un diluvio: «Non mi sono asciugato subito come avrei dovuto e porto ancora le conseguenze di forti dolori reumatici». Ma sono i dolori che ha sopportato meglio. Altre ferite invece non si sono più chiuse: «Mi scuso, ma non mi sento di parlare di quegli anni. Mi è capitato di andare in alcune scuole su insistenza di amici, ma si è rinnovata una sofferenza che faccio fatica ad accettare. Ho perso nei campi di sterminio gli zii materni Lina Arianna Jenna e Ruggero Jenna, come tutta la famiglia dei cugini Sforni. Per me è un dolore troppo grande».
Gian Giacomo ricostruisce la partenza precipitosa da Verona: «Dovevamo andarcene prima che a Verona si insediassero i tedeschi. Avevamo avuto notizia delle morti e delle persecuzioni di ebrei attraverso le segnalazioni delle fräulein che frequentavano la nostra famiglia e che erano tutte ebree tedesche. Nostro padre conosceva un importante personaggio, direttore del Credito Italiano di Milano, con il quale aveva combattuto nella prima guerra mondiale e che ci mise in contatto con contrabbandieri che a pagamento favorivano l'espatrio in Svizzera».
La famiglia Reichenbach si trovò in un villaggio del Lago Maggiore in attesa del momento buono per passare il confine, mentre si ingrossava il gruppo dei transfughi. «Perché quell'assembramento di persone estranee al paese non desse nell'occhio», racconta Gian Giacomo, «fu organizzato un finto matrimonio: una coppia indossò gli abiti da sposi e tutti ci vestimmo a festa per sembrare gli invitati. C'erano perfino i musicisti. La festa durò fino alle 4 di mattina, quando in silenzio e in fila indiana ci incamminammo verso il confine dove un buco nella rete ci permise di entrare in Svizzera. Mio padre volle che passassimo tutti prima di consegnare il denaro pattuito, perché non succedesse come ai nostri cugini Sforni, rivenduti dai contrabbandieri ai tedeschi per 5000 lire». Gian Giacomo fu mandato in avanscoperta dal padre; insospettito da strane ombre nel bosco, scoprì che si trattava di militari indiani dell'esercito britannico che si rimettevano il turbante e la divisa, buttando via i vestiti civili indossati in Italia, per essere accolti come rifugiati di guerra. Per gli ebrei invece non era semplice il riconoscimento e ai Reichenbach fecero da garanti dei loro parenti residenti a Zurigo. Lì si trasferì Gian Giacomo per continuare gli studi in una scuola italiana fino alla maturità, mentre il padre Attilio trovò lavoro come commercialista a Lugano.
Gian Giacomo tornò da clandestino in Italia, a fine guerra, prima che fossero aperte le frontiere per il rientro dei profughi. «Trovai Palazzo Emilei che era la casa della zia Lina pieno di sfollati, la nostra casa in lungadige Galtarossa completamente bombardata e la villa di Santa Lucia saccheggiata, dopo essere stata occupata dai tedeschi. Era rimasto un cannone da contraerea trasferito su binari dentro il salone».
Conclude con amarezza Gian Giacomo: «Non possiamo dire di aver ricevuto molta solidarietà a Verona dopo le leggi razziali. Ci sono state sbattute in faccia molte porte da quanti consideravamo amici. Solo la contessa Sparavieri, coniugata De Amicis, crocerossina con mia madre Marcella Jenna sul fronte della prima guerra mondiale, non si risparmiò per aiutarci».

Da Mirandola a Cernobbio. Così salvavo gli ebrei

«Carissima famiglia Borghi, non potremo mai dimenticare quei tragici giorni quando l’Italia veniva occupata, ci avete nascosti, ci avete curato come se fossimo vostri figli. Questo non si potrà mai pagare. Avete rischiato la vostra vita per salvare degli internati stranieri, che erano deportati a forza da parte dei barbari fascisti». Questa lettera, firmata da Leone e Raffaele Talvi, due fratelli ebrei, è stata spedita da Zweidlen, Svizzera, il 2 aprile 1945. I destinatari erano Silvio e Lidia Borghi, due italiani di Mortizzuolo, un paesino vicino Mirandola, in provincia di Modena.
Oggi Silvio non c’è più, riposa al cimitero di Velate. A ricordare per lui c’è, però, la moglie Lidia Caleffi che ha 96 anni e vive ad Avigno con la figlia e il genero.
(foto: Silvio Borghi, il terzo da sinistra, con i passatori a Cernobbio)
1 Ottobre 1943. Silvio Borghi è un “casaro”, uno che sa fare i formaggi. Un giorno al mercato di Mirandola conosce la famiglia Talvi, ebrei di Belgrado. Erano in Italia perché il capofamiglia Ilija faceva parte del corpo diplomatico jugoslavo a Roma. L’occupazione tedesca li aveva costretti a sfollare verso nord in cerca di una via di fuga. Con lui c’erano la moglie Rebecca, i figli Raffaele, Leone e Alice, incinta di sei mesi, e il genero Menahem Almoslino. «Mio marito - racconta Lidia - era un uomo aperto. Aveva fatto il militare a Spalato e quando conobbe i Talvi fece subito amicizia. Era una famiglia dell’alta borghesia ebraica, di ottimo livello culturale. Non avevano però nulla perché prima i fascisti e poi i nazisti li avevano spogliati di tutto. E così Silvio li invitava a casa a mangiare».
Nel 1943 lo sterminio nelle camere a gas del popolo ebraico è in piena attività e la stretta dei tedeschi sugli ebrei si fa sentire anche a Mirandola. La famiglia Talvi è costretta a nascondersi. Don Sala, parroco di San Martino, accoglie i coniugi, Ilija e Rebecca, la loro figlia Alice e il marito. Gli altri due figli, Raffaele di 25 anni e Leone di 22, dopo essere stati respinti da una famiglia, si rivolgono a Silvio Borghi. «Arrivarono a casa in bicicletta e Silvio non esitò. Adattammo la stanza di Enzo, il mio figlio più piccolo, chiudendo l’entrata con un armadio, con la scusa di dover stagionare il formaggio. Di giorno se ne stavano rintanati nella stanza a disegnare. Alla sera tardi, si spostava l’armadio e si facevano scendere i due ragazzi in cucina per mangiare e per camminare un po’ nell’orto per sgranchirsi le gambe».
Lidia custodisce ancora con cura quei disegni. Sono scene di campagna e alcuni autoritratti che rispecchiano lo stato d’animo dei due giovani: volti carichi di angoscia, molto più vecchi dei loro vent’anni.

La situazione precipita, i rastrellamenti dei nazifascisti sono sempre più frequenti. Per i Talvi l’unica via di salvezza è la Svizzera. Intanto la voce che Silvio Borghi aiuta gli ebrei si diffonde nella comunità ebraica di Mirandola e così anche altre persone, fra cui Mara Martinovic e Leon Hoffmann, bussano alla sua porta.
La Svizzera è troppo lontana, e l’unico contatto di Silvio è Dino Riva, un commilitone di suo padre che vive a Cernobbio, in provincia di Como, vicino al confine elvetico. Don Sala viene mandato un paio di volte in avanscoperta nel comasco per verificare la disponibilità dei Riva a organizzare l’espatrio clandestino. «Mio marito non aveva mai viaggiato. Ma non ci pensò due volte: radunò la famiglia Talvi e partì».
                        (foto, da destra: Leone, Alice e Raffaele Talvi nel giorno del matrimonio della sorella)
21 ottobre del 1943. Il  gruppetto, formato da sette persone, arriva a Milano, da lì raggiunge Como in treno e poi Cernobbio in pullman. Arrivati in paese Silvio, che non sa dove abitano i Riva, va avanti mentre i Talvi si nascondono in un bosco vicino al paese.
«Era sera e  iniziava il coprifuoco - continua Lidia -. C’era anche una pattuglia di ronda che veniva nella loro direzione. Mio marito andò a cercare la via dove vivevano i Riva. Prendendo un sentiero si trovò a passare a ridosso del retro di una casa e da una finestrella udì alcune voci e riconobbe quella di Dino, che era molto particolare. Bussò, e Dino gli aprì la porta. Mio marito tornò indietro e  recuperò a due a due il gruppetto e li portò a casa».  
I Riva chiamano alcuni giovani passatori che conoscono bene i sentieri tra i monti che portano al confine. Le valige dei Talvi sono troppo pesanti. Vengono svuotate e il contenuto ripartito negli zaini, più facili da trasportare in salita. Per avere qualche possibilità di farcela si dividono in più gruppetti e si mantengono distanziati. Alice, incinta all’ottavo mese, viene affidata a due passatori, perché in alcuni tratti deve essere portata a braccia. Alla fine tutti passano il confine e raggiunta un’altura in territorio svizzero e  ormai in salvo, sventolano i fazzoletti per salutare i passatori e Silvio.

Tornato a Mortizzuolo, Silvio organizza subito un altro viaggio. Questa volta tocca a Leon Hoffmann, ebreo di Zagabria e commerciante di stoffe. Una volta raggiunto il territorio svizzero, Hoffmann consegna a Silvio un biglietto di ringraziamento per lui, ma chiedendogli di farlo leggere anche agli altri ebrei confinati a Mirandola. Quel biglietto contiene una parola in codice, ”pane”, che per la comunità ebraica significa speranza e anche salvezza.
Nel 1945 Alice Talvi, suo marito e la bimba, che nel frattempo è nata, si trovano nella Svizzera francese, Leone e Raffaele in un campo di lavoro a Zweidlen,  Ilija e Rebecca Talvi a Finlaut nel Canton Vallese. Scrivono molte lettere alla famiglia Borghi, continuando a ringraziare. In una di queste c'è anche una frase che, alla luce dell’attuale dibattito sulle radici comuni del Vecchio Continente, suona profetica: «...Avete dimostrato di appartenere a quel blocco in cui è unita tutta l’Europa nella lotta contro il nemico della civiltà, al blocco antifascista. Non c’è cosa al mondo con cui si potrebbe pagare il debito verso di voi».

La strage degli ebrei dell’Hotel Meina



Meina è una ridente cittadina del lago Maggiore, confinante con Arona e sede, da tempo, di molte
ville in cui personaggi importanti hanno trascorso in assoluta riservatezza i loro momenti di riposo,
ma che è stata nel XIX secolo anche un centro industriale di una certa importanza. All’ingresso del
paese, dove una volta sorgeva il porto, c’è un albergo, oggi fatiscente, carico di tristi ricordi: quando
ancora si chiamava “Hotel Meina” ed apparteneva alla famiglia Behar, nel 1943, divenne il luogo in
cui fu compiuta una delle prime stragi di ebrei civili in Italia. L’Hotel Meina era un albergo di


prima qualità: un giardino che dava sul lago, l’imbarcadero dei battelli proprio a due passi, come la
strada statale, una sala da biliardo, una per giocare a carte. Anche la cucina era ottima, tenuto conto
del razionamento. Nel settembre del 1943 gli ospiti erano un centinaio: da quando la Casa editrice
Mondadori, a causa dei bombardamenti, aveva trasferito gli uffici ad Arona, non erano pochi i
dirigenti che vivevano nell’albergo. Con essi, alloggiavano all’Hotel Meina anche alcune famiglie
di ebrei greci fuggiti appena in tempo da Salonicco: la famiglia Fernandez Diaz, composta dal
nonno Dino, da suo figlio Pierre, da sua moglie Liliana e da Jean, Robert e Brachette, i loro figli; la
famiglia Mosseri, composta dai coniugi Marco ed Ester e dal figlio Giacomo Renato e sua moglie
Odette; infine, la famiglia Torres, composta dai coniugi Raoul e Valerie. Arrivava da Salonicco
anche Daniele Modiano, mentre gli altri tre ebrei vittime del razzismo nazista furono Lotte
Froehlich, moglie dello scrittore Mario Mazzucchelli e due dipendenti del negozio milanese di
antiquariato del proprietario dell’albergo, Alberto Be har, che si trovavano a Meina per caso, come
aiutanti tuttofare nell’albergo: Vitale Cori e Vittorio Haim Pompas.


Quando il 15 settembre 1943 le SS si presentarono all’Hotel Meina, andarono a colpo sicuro:
qualcuno li aveva avvisati della presenza di ebrei nell’albergo. Non si trattava di nazisti qualunque:
facevano parte della divisione corazzata Leibstandarte “Adolf Hitler”, di ritorno dalla Russia, erano
soldati spesso giovanissimi, spietati e “specializzati nella strage all’ebreo”. Dopo avere occupato
l’Hotel, ordinarono a tutti gli ospiti di ritirarsi nelle loro camere e poi, individuati gli ebrei, li
portarono all’ultimo piano. Catturarono anche il proprietario e la sua famiglia, ebrei, ma turchi.
Poiché i Behar ospitavano nella loro abitazione meinese, villa Novecento, il console turco (la
Turchia era in quel momento neutrale), questi intervenne per liberarli ed essi, dopo avere pagato
una penale in denaro per avere ospitato degli ebrei, scamparono al massacro, pur divenendone
impotenti testimoni. L’occupazione dell’Hotel durò fino al 23 settembre, una settimana di agonia di
cui tutto il paese fu in qualche modo testimone: una strage che si differenziò dalla altre compiute
sulle rive del Verbano (ad Arona, Baveno, Stresa, Mergozzo, Orta, Pian Nava e Intra), per le quali
si cercò la massima segretezza. Gli ospiti dell’Hotel avevano molti amici a Meina e ad Arona, che
cercarono di mettersi in contatto con loro, di mediare. Ad alcuni fu consesso un lasciapassare e
poterono incontrarli un’ultima volta, pranzare con loro, raccogliere confidenze, alcuni ricevettero
anche gioielli e valori da mettere in salvo. Il 17 settembre il clima era così “disteso” che le SS più
giovani giocarono con i ragazzi Fernandez Diaz. Il giorno seguente, un cupo silenzio e un tangibile
nervosismo presero il posto del rumoroso via vai dei giorni precedenti. In tarda serata due individui
cercarono di allontanare dall’albergo il proprietario, che fu salvato dall’intervento del vice console
turco Dian Danish, che alloggiava in Hotel. Nei giorni successivi la situazione peggiorò. Il 22 fu
vietato agli ebrei di scendere al pianterreno e di passeggiare nel corridoio del quarto piano.
Dovevano restare nelle loro camere e tenere le porte chiuse. Dopo cena, il capitano Krüger
annunciò a voce alta, perché tutti gli ospiti ariani sentissero, che gli ebrei presenti nell’albergo
dovevano essere trasferiti, per ordine del comando delle SS di Baveno, in un campo di
concentramento che distava 150-200 KM da Meina, che i “detenuti” sarebbero stati trasferiti con
un’automobile privata a piccoli gruppi e che per tutto il tempo del trasferimento degli ebrei gli altri
ospiti dovevano restare nella sala da pranzo o, meglio, nelle loro camere, in modo da evitare
qualunque contatto con loro. I primi quattro ad essere prelevati furono Marco ed Ester Mosseri,
Lotte Froehlich, Vitale Cori. Furono fatti salire su una camionetta, non su un’auto privata, che
rientrò in albergo all’una di notte: era passato troppo tempo per un interrogatorio ad Arona, troppo
poco per un trasferimento nel fantomatico campo di concentramento. Il secondo gruppo scelto dalle
SS era composto da due coppie di sposi: i Mosseri e i Fernandez Diaz. Allontanandosi, Marco e
Liliana Fernandez Diaz abbracciarono i tre figli e il nonno. La camionetta, dopo averli caricati, si
allontanò in direzione di Arona. Alle tre del mattino del 23 settembre, le SS tornarono in albergo,
dove si era ballato tutta la notte, forse per occultare il rumore degli spari che Adriana Galliani,
fidanzata di Vittorio Haim Pompas disse poi di avere udito in diversi momenti. Vittorio Haim
Pompas insieme a Daniele Modiano e Raoul e Valerie Torres fu inserito nel terzo gruppo portato
verso Arona. La destinazione dei “detenuti” fu chiara il mattino del 23 settembre. I Tedeschi
avevano portato gli ebrei poco distante, alla Casa Cantoniera in località Pontecchio e dopo averli
fucilati li avevano gettati nel lago con sassi legati al collo per impedirne il riaffioramento, che
puntualmente si verificò e permise agli abitanti di Meina di conoscere la verità. Le SS allora
raggiunsero i cadaveri con una barca e li colpirono con le baionette per affondarli una volta per
tutte. Per tutto il giorno i ragazzi Fernandez Diaz restarono affacciati al terrazzo, chiedendo ai
passanti, che cercavano di rassicurarli, notizie sui loro genitori. Alle 22 furono prelevati con il
nonno: nessuno ebbe dubbi sulla loro sorte, quando la camionetta partì verso Arona.
La strage di Meina è uno degli episodi più terribili dell’occupazione nazista in Italia,
oltre che dei più ignorati. Nel 1968 ad Osnabrück fu celebrato un processo in cui i Behar si costituirono parte civile: due ufficiali furono condannati all’ergastolo, ma nel 1970 una sentenza della Corte suprema
di Berlino cancellò tutto, perché i reati erano da considerare caduti in prescrizione. In Italia non s’è
mai fatto un processo. Nessuno ha pagato per quei sedici morti. Ma c'è chi non ha dimenticato e da
anni racconta la verità: «I giorni di Meina hanno segnato nella mia vita - scrive Becky Behar - un
trauma perenne: non sono più stata la stessa, perché non è il fatto di essere sopravvissuto che ti
può dare pace».

EMANUELE STAGNARO

Il comandante della nave Esperia che finse di non sapere e salvò così 1500 ebrei



«Noi ebrei, salvati da un italiano eroe»

Nel ' 40 il capitano Stagnaro disobbedì agli ordini e sbarcò in Egitto centinaia di persone in fuga. «E' un giusto, va onorato» Parla James Hazan, che era sull' Esperia. «Usò un trucco perfetto e non rivelò mai il segreto» La nave fu affondata un anno dopo da un sommergibile inglese davanti a Tripoli

Quanti furono gli italiani che non si piegarono al razzismo di Stato, quando l' Italia mandava a sicura morte, in Germania, i suoi cittadini ebrei? Centinaia, migliaia, milioni di uomini e donne che, a differenza dei deboli e dei codardi, ebbero l' onestà e la forza di disobbedire agli ordini. Uno di questi fu il comandante Emanuele Stagnaro, uomo di mare, un italiano di cui andare fieri, la cui umanità esce finalmente alla luce dopo una cospirazione del silenzio durata oltre mezzo secolo. Perché così, «cospirazione del silenzio», la chiama James Hazan, 71 anni, uno dei salvati dal capitano Stagnaro, che oggi si batte per onorarne il nome. E racconta una trama che, da Londra a Napoli, dall' Italia all' Egitto, sembra da film. Invece è una storia di semplice bontà. Eccola. Hazan fa di nome James, perché suo padre Isaac, un ebreo egiziano che fu plenipotenziario di re Fuad a Roma e poi interprete di Mussolini, aveva passaporto britannico (ovvio per un collaboratore, a quel tempo, dei servizi segreti di Londra). Ma, essendo nato a Roma, James era Giacomo, anzi Giacomino, un bambino minacciato dalle leggi razziali del ' 38. Dice: «Gli ebrei venivano da tutte le parti, dalla Francia, dalla Germania, per vedere una luce alla fine del tunnel. E quella luce era l' Africa, ma per andarci bisognava venire in Italia, imbarcarsi a Genova o a Napoli sull' Esperia, la nave del comandante Stagnaro, che faceva rotta per Alessandria, e ritorno. Anche noi, cioè la mia famiglia, eravamo su quella nave nel giugno del 1940. Il comandante, un genovese che era amico di mio padre perché mangiavano assieme la pizza da Luigi, in via Tribunale a Napoli, ci mise nella cabina del re, ma che era ormai piena: una folla di gente in fuga. Faceva caldo, e per uscire mi toccava camminare sulla gente...». James sta a Londra da più di trent' anni, ormai, ma ha ancora l' accento romanesco, quando salta da una lingua all' altra per trovare la parola giusta. E salta pure le epoche: «Sa, qualche settimana fa mi chiama un amico di Napoli, e mi dice: vieni a trovarmi, a prendere un caffè, il volo da Londra, con Ryanair, costa solo una sterlina. E vado. Così, penso, faccio pure un salto da mio fratello a Orvieto e da mia sorella a Milano. Ed è a Milano, al Cdec, il Centro di documentazione ebraica contemporanea, che trovo la signora Liliana Picciotto, che ora farà di tutto per onorare il nome di Emanuele Stagnaro». Appunto: che cosa fece Stagnaro, nel 1940? «Stiamo per arrivare in Egitto, quando il capitano riceve un telegramma da Napoli. Gli dicono che l' Italia ha dichiarato guerra alla Gran Bretagna e che lui deve tornare subito indietro con merci e passeggeri. Insistono: i passeggeri! Pensi, oltre mille persone a bordo, quasi tutti ebrei, di cui 400 inglesi. Mio papà, il capitano e Cesar Douek, un altro ebreo egiziano, cercano una soluzione: che cosa fare? Se Stagnaro attracca ad Alessandria gli inglesi, che ora sono nemici, sequestrano la nave, lo fanno prigioniero e, al ritorno, i fascisti l' impiccano. Allora mio padre contatta l' Intelligence Service, al Cairo, e il capitano Samson, un furbacchione, gli fa sapere: c' è il porto di Mex, al-Maks in arabo, che gli inglesi non controllano. Stagnaro decide: fa rotta su quel porto minore, e ci dice di fare in fretta. Lei ha presente il terrore di chi vede la salvezza e teme d' essere riportato indietro? Avremmo perfino nuotato, per salvarci». E allora? «Allora, come ho detto, c' è stata una cospirazione del silenzio. Stagnaro non parla, mio padre nemmeno, quando racconto la storia mi dicono che mento, che sono un Giacomino. Finché una sera, tempo fa, vado a uno di questi cocktail party che si tengono a Londra e, mentre accenno il mio racconto vedo il volto d' una donna famosa, Claudia Roden, autrice di libri di cucina vendutissimi, che s' accende: sull' Esperia, dice, c' era anche lei! E' la figlia di Cesar Douek, è anche lei una salvata da Stagnaro. Finalmente non sono solo, c' è qualcuno che può testimoniare, e non possono dire che Claudia cerca pubblicità. Così mi metto in moto. Sa che cosa ho fatto, a Napoli? Sono andato alla capitaneria, e negli archivi ho trovato la conferma che era proprio lui, il capitano genovese, al comando dell' Esperia. Ma ora non si deve perdere tempo: il figlio di Stagnaro, Cesare, che abita a Sestri Levante, ha ormai 90 anni. L' ho detto alla signora Picciotto: dobbiamo sbrigarci». Appunto. E' quello che vi disse il comandante Stagnaro, nel giugno 1940, a Mex: sbrigatevi. «Appunto, e noi ci sbrigammo. Lui poi fece rotta di nuovo verso Napoli, con la nave vuota, o con i passeggeri saliti ad Haifa, in Palestina, e a Beirut. E giunto a Napoli non disse di non avere ricevuto il telegramma, ma d' averlo ricevuto quando ormai tutti erano scesi. Troppo tardi. E inizia lui stesso la cospirazione del silenzio: perché, oltre a lui, mio padre e Douek, soltanto il telegrafista e il macchinista sapevano che il telegramma era arrivato prima di Alessandria. Neppure in sala macchine sapevano che eravamo a Mex. Neppure noi: siamo sbarcati senza sapere dove fossimo». Adesso James-Giacomino Hazan sa che la storia non si può più tenere nascosta e, chissà, potrebbe diventare un film, se il Times, che l' ha rivelata agli inglesi, definisce Stagnaro «un altro Schindler italiano», come Giorgio Perlasca. Ma c' è un finale amaro, che rivela come questa sia una storia vera, non una sceneggiatura: solo un anno dopo l' Esperia, ormai nave per il trasporto di truppe, fu affondata da siluri inglesi. Così Hazan, per finire, fa un ultimo salto all' oggi: «Voglio che sia onorato come un giusto. Ho appena scritto al rabbino capo di Londra e all' ambasciatore d' Israele perché nel nome di Emanuele Stagnaro sia piantato un albero nella strada dei giusti, in Israele. Ecco la lettera: "Chiedo la dovuta riconoscenza del popolo d' Israele, perché io sono parte di quel popolo"». E minaccia: «Ora sono pronto a tutto, perfino ad andare a protestare a casa di Ariel Sharon, nel suo giardino, perché sia fatta giustizia». Alessio Altichieri 1940 10 GIUGNO Mussolini dichiara guerra agli Alleati schierandosi con Hitler. A tutte le navi italiane che si trovano in mare aperto viene ordinato di rientrare nei porti italiani 1940 GIUGNO La Esperia, comandata dal capitano Emanuele Stagnaro, non obbedisce all' ordine di rientro e sbarca i passeggeri, quasi tutti ebrei, in un porto egiziano 1941 20 AGOSTO Poco prima delle 10.20 di mattina, quando l' Esperia era ormai a 11 miglia da Tripoli venne silurata dal sommergibile inglese Unique e affondò in una decina di minuti 1941 19 AGOSTO La Esperia salpa da Napoli diretta a Tripoli. A bordo reparti della 101a Divisione motorizzata Trieste. Fra equipaggio e soldati a bordo c' erano 1.182 persone «Ore 10.17: tre siluri contro di noi» Ecco alcuni passaggi degli ultimi istanti della Esperia, tratti dal diario di bordo del capitano Emanuele Stagnaro. «Dopo aver effettuato l' imbarco di truppe italiane e tedesche, la notte del 19 agosto /XIX, le unità del convoglio veloce, di cui faceva parte l' Esperia, lasciarono il porto di Napoli, scortate da cacciatorpediniere tipo Vivaldi... All' alba del giorno 20 ricominciò la perlustrazione da parte della nostra aviazione... Alle 10.17 si era appena rilevato il faro di Tripoli per 316 gradi alla distanza di 12 miglia, quando fummo attaccati da un sommergibile nemico posto in agguato che lanciò tre siluri a pochissimi istanti l' uno dall' altro. Il primo fu avvistato a circa 150 metri diretto a velocità fortissima contro la parte prodiera... Fu necessario ordinare il "Si salvi chi può" e abbandonare la nave. Per ultimi, scendemmo il comandante militare e io, calandoci da due penzoli salvavita... Dopo pochi istanti, alle ore 10.30, l' Esperia scomparve inabissandosi. Da un primo sommario appello risultano scomparsi 27 militari italiani, sei persone dell' equipaggio civile, tredici militari tedeschi».