domenica 27 novembre 2011

7 aprile 1944, la strage del pane a Ponte di Ferro a Roma

Il 7 aprile del 1944, dieci donne vennero brutalmente uccise dai nazifascisti nei pressi del Ponte dell’Industria, comunemente noto con il nome di Ponte di Ferro, sito tra Garbatella e Testaccio.

Lo storico Cesare De Simone ha rintracciato nei Mattinali della Questura di Roma i loro nomi: Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi, Silvia Loggreolo.

Quel giorno erano giunte al forno Tesei nel tentativo di procurare del cibo alle loro famiglie, lo stesso pane che gli era stato ingiustamente sottratto per sfamare i soldati tedeschi.Le donne, denunciate dalla Polizia Africa Italiana, complice delle SS, vennero quindi fucilate e i loro corpi furono esposti sul luogo dove avvenne il massacro per scoraggiare i rivoltosi.

Una stele in bronzo, alla destra del ponte, realizzata da Michele Crocco, raffigura i volti delle donne di Ponte di ferro, cinque rivolte a destra e cinque a sinistra, come se fossero alla ricerca di un aiuto in quell’ultimo, tragico attimo di vita.

Nel monumento, apposto dal Comune di Roma alla fine degli anni ’90 su iniziativa dell’allora Commissione delle Elette, riviviamo la violenza della guerra e nei loro sguardi incisi ritroviamo il coraggio dell’azione rivoluzionaria.

Gli Ovitz, i sette nani di Mengele


Per molti degli sventurati che hanno avuto come triste sorte finire ad Auschwitz, l’officina della morte, quell’esperienza ha significato la morte. Una morte spesso atroce, per fame o malattia, per tortura o per sfinimento. Ma c’è stata molta gente che prima di morire ha dovuto passare molto più di quello che un essere umano possa sopportare; morire, per molti degli internati di Auschwitz, alle volte era una fortuna. Ma c’è stato anche chi è riuscito a sopravvivere all’inferno in terra, ai demoni che hanno fatto di Auschwitz la negazione stessa del concetto di umanità; tra questa ristretta minoranza di persone che sfuggirono ad una morte pressochè certa, piagati nell’amima e nel corpo, ci furono sette persone appartenenti alla stessa famiglia. Un primato, senza dubbio. Legato ad una particolarità che se da un lato li espose ad una serie terribile di esperienze, raccontate da una delle superstiti, dall’altro li salvò da morte certa. Erano i sette fratelli Orvitz, i sette nani di Mengele, come vennero chiamati. Il giocattolo preferito dell’angelo della morte, quel Joseph Mengele che fece dire a Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti che dedicò la sua vita ad una inesauribile voglia di giustizia verso i carnefici nazisti, “la mia anima sarà finalmente in pace quando Mengele sarà assicurato alla giustizia.”



Così non avvenne, ma è un’altra storia.

La storia che ci interessa, quella degli Ovitz, incomincia nel 1868, con la nascita di Shimshon Eizik Ovitz. Un uomo di bassa statura, o anche un nano, per usare una definizione triste, ma efficace;che sposò una donna di statura normale,Brana Fruchter; dall’unione tra i due nacquero Rozika et Franzika, entrambe affette da nanismo. Alla morte della moglie Shimshon si risposò, nuovamente con una donna di statura normale, ed ebbe dall’unione, Avram (nano), Freida (nano), Sarah (altezza normale) Micki (nano), Leah (altezza normale), Elizabeth (nano), Arie (altezza normale), et Piroska, conosciuta anche Pearla (nana).

Sette dei suoi figli affetti da un’ anomalia genetica, la displasia spondiloepifisaria.Una malattia rara, caratterizzata da un disordine di sviluppo del tessuto osseo che determina un tronco corto e sproporzionato rispetto agli arti; una malattia in cui i pazienti presentano un ritardo di crescita che esita in una statura ridotta, variabile tra 90 e 130 cm.


Shimshon era un rabbino rispettato, in Transilvania; e insegnò ai suoi figli i primi rudimenti della musica. Così,alla sua morte, avvenuta nel 1923, i sette fratelli Ovitz, misero su un’orchestrina jazz che iniziò a girare l’Europa.Tra il 1930 e il 1940 il gruppo si fece una buona fama grazie ai loro spettacoli in lingua tedesca, rumena, ebraica, russa e ungherese. Lo scoppio della seconda guerra mondiale non frenò la loro attività, fatta di rappresentazioni musicali accompagnate da diapositive proiettate dai tre fratelli di statura normale.

Lo scoppio della guerra mondiale vide gli Ovitz impegnati nel loro toru dei paesi europei; riuscirono a farsi dare dei documenti che non rivelavano la loro confessione religiosa, e forti di questo pensarono di essere al sicuro dai nazisti. Un errore fatale. Nel marzo del 1944, mentre erano in un villaggio, in Ungheria, i nazisti occuparono tutti i paesi del circondario, e i sette vennero catturati La banda Lilliput, come era chiamata, venne caricata su un vagone ferrioviario, con destinazione il campo di concentramento di Aushwitz.


Giunti nell’officina della morte, i sette Ovitz scesero dal treno, proprio mentre il dottor Mengele assisteva allo sbarco dei prigionieri; l’angelo della morte era sempre alla ricerca di cavie per i suoi aberranti esperimenti sulla genetica e sull’eriditarietà. Esperimenti senza alcuna base scientifica, e che si trasformarono, per le sue cavie, in un orrore senza fine. E per gli Ovitz il nanismo rappresentò la salvezza, costata un prezzo spropositato.

Come raccontò Elizabeth, una degli Ovitz, “gli esperimenti più spaventosi di tutto erano quelli ginecologici. Ci legarono a delle barelle e iniziarono a torturarci sistematicamente . Iniettavano delle sostanze nel nostro utero, estraendo contemporaneamente campioni di tessuto, È impossible da raccontare a parole il dolore intollerabile che abbiamo sofferto, che continuò per molti giorni dopo che gli esperimenti cessarono. ‘

Esperimenti, come già detto, che in realtà furono assolutamente inconcludenti dal punto di vista scientifico, e che si trasformarono solo in un calvario per le povere vittime.

“`Hanno estratto il midollo osseo dalla nostra colonna vertebrale.Ci hanno strappato capelli ,e hanno cominciato a fare esperimenti con poca anestesia,quando eravamo ancora svegli.Hanno compiuto prove dolorosissime sul cervello, sul naso, sulla bocca e su alcune parti delle mani. Tutte le fasi sono state documentate con illustrazioni.”


Per quanto atroce, la loro esperienza li portò comunque a restare vivi; altri due nani, che erano stati catturati e sottoposti a esperimenti, non furono così fortunati. Dopo essere stati sottoposti a tutto il campionario di atrocità del dottor morte, vennero uccisi e bolliti, mentre il loro scheletri vennero inviati a Berlino come curiosità.

Gli Ovitz le provarono tutte per restare vivi; improvvisarono degli spettacoli per l’equipe dei loro torturatori, e si fecero anche filmare nudi da Mengele, che inviò il risultato del suo “lavoro” al fuhrer in persona.

Passarono così sette interminabili mesi, tra esperimenti folli e la paura che ogni giorno potesse essere l’ultimo. Ma nel 1945 ,il 27 gennaio, le truppe russe arrivarono nel campo della morte, e per i pochi superstiti, fra i quali i sette fratelli Ovitz, iniziò il lento recupero alla vita. Passarono qualche tempo in Russia, prima di ritornare a casa e ricominciare nell’attività che conoscevano meglio, quella musicale e teatrale. Dopo qualche anno si trasferirono in Israele, dove acquistarono un cinema

I maschi degli Ovitz si sposarono ed ebbero figli, mentre, a causa degli esperimenti ginecologici del dottor morte, le donne rimasero sterili.

La maggiore degli Ovitz, Rozika , morì a 98 anni, nel 1984; il dottor Mengele, che riuscì a sfuggire alla caccia degli alleati, si rifugiò in Sud America, dove visse spostandosi di continuo, per poi annegare, nel 1979, mentre si bagnava su una spiaggia brasiliana.Nel 1985 il suo corpo venne identificato e i successivi esami del Dna, fatti nel 1992, confermarono che il corpo era proprio quello del dottor Mengele.

I tedeschi sovietici durante la seconda guerra mondiale

...Tra il 3 e il 20 settembre l'NKVD, la milizia e i reparti dell'Armata Rossa radunarono tutti i tedeschi della Repubblica del Volga e delle regioni di Saratov e di Stalingrado. Ogni casa tedesca fu perquisita, e i suoi occupanti trasportati su camion e automobili alla più vicina stazione ferroviaria: sui binari convogli di carri bestiame attendevano i deportati. Le persone vennero informate dell'imminenza del trasferimento solo poche ore prima della partenza. Poterono portare con sé poche cose, che fossero poco ingombranti. Uno dei deportati sopravvissuti, la signora Langenfelder, racconta come avveniva il trasporto: "In un vagone, dotato di panche attaccate alle pareti su ambo i lati, venivano rinchiuse fino a quaranta persone. Ad ognuno veniva data ogni giorno un'unica razione, costituita da 0,3 litri d'acqua e una sardina. Si viaggiava per giorni, settimane, mesi; fuori la temperatura raggiungeva i 40°. Ci si fermava solo nelle varie stazioni per gettare i corpi inerti, che dovevano essere raggruppati su un lato del vagone". Le donne russe sposate a tedeschi furono deportate con i loro mariti; le donne tedesche sposate a russi (un migliaio in tutto) furono invece lasciate con i loro mariti nella regione. Dopo la deportazione il governo sciolse la repubblica dei tedeschi del Volga, e la divise tra le unità amministrative confinanti.

Contemporaneamente ai tedeschi del Volga fu presa la decisione di esiliare 132.000 tra tedeschi e finlandesi della regione di Leningrado. La destinazione, anche in questo caso, sarebbe stata il Kazakhstan.

L'operazione tuttavia non fu completata a causa dell’accerchiamento di Leningrado da parte dell’esercito tedesco. Solo nel 1946 l'esilio di tutti i tedeschi di Leningrado poté essere completato. Le altre grandi città russe furono "ripulite" della popolazione tedesca senza particolari intoppi (quasi 9.000 furono deportati da Mosca, e più di 21.000 dalla città e dalla regione di Rostov sul Don). In settembre le persone di "etnia tedesca" furono rimossi anche dall'Armata Rossa e dalle accademie militari...

Ricordando Mat'Marija vittima di entrambi i totalitarismi

Ricordando Mat’ Marija, al secolo Elizaveta Jur’evna Skobcova, morta nel lager di Ravensbrück il 31 marzo 1945, vogliamo anche rendere un omaggio affettuoso all’amica Nina Kauchtschischwili che ha lasciato questo mondo il 4 gennaio scorso.
Nina Kauchtschischwili, georgiana, insigne slavista, docente all’Università di Bergamo, ha collaborato con Interdependence in più occasioni. Se ne è andata a 90 anni, ancora vivacissima nel percorrere sentieri, anche in senso letterale con la sua attività di guida scout, ma ancor più culturali e spirituali nell’infaticabile esplorazione, in un’ottica ecumenica, di tutti i possibili intrecci tra la cultura occidentale e quella orientale, in un’Europa che vuole respirare con due polmoni, secondo l’efficace espressione del poeta russo Vjaceslav Ivanov ripresa più volte da Giovanni Paolo II.
‘Tra Oriente e Occidente, la via nel mondo di Mat’ Marija Skobcova’ è il sottotitolo del libro ‘Mat’ Marija. Il cammino di una monaca’, che Nina Kauchtschischwili ha dedicato a questa luminosa figura di donna che attraversa, ma anche trasfigura, il male dei due massimi orrori totalitari del secolo scorso, di segno opposto e tra loro nemici, ma di identica violenza. E Oriente ed Occidente stanno qui per est e ovest dell’Europa, in cui si intrecciano le vicende legate all’affermarsi del comunismo russo e del nazismo e, con esse, la vita di mat’ Marija che, costretta ad allontanarsi dalla Russia nel 1920 per non cadere nella mani dei Bolscevichi, finirà martire dei Nazisti.

Elizaveta Jur’evna Skobcova nasce nel 1891 a San Pietroburgo in una famiglia di nobili che è in contatto con i nomi più belli della cultura del tempo. Nel 1910 sposa Dmitrij Kuz’min-Karavaev. Inizia con il matrimonio un periodo caratterizzato dalla frequentazione dei poeti russi dell’età d’argento, da una vita mondana brillante ma al tempo stesso oziosa, che lascia in Elizaveta un senso opprimente di vuoto e la porta a chiedere il divorzio.

Da una breve relazione di Elizaveta con un uomo del popolo, nasce una bimba, Gajana, cui Dmitrij Kuz’min-Karavaev dà il proprio cognome e a cui dimostrerà in più occasioni un affetto paterno. Dmitrij diverrà in seguito sacerdote cattolico. Nel 1919 Elizaveta sposa Daniil Skobcov, dal quale ha due figli, Jurij e Anastasija. Con la guerra e la rivoluzione ha inizio la sua militanza nel partito dei socialisti rivoluzionari, che la porta persino a diventare sindaco della cittadina di Anapa (la prima donna nella storia russa a svolgere un simile ruolo).

Costretta dalla vittoria definitiva dei bolscevichi a emigrare nel 1920, si trasferisce a Parigi. Inizia per Elizaveta un periodo pieno di sofferenze. Perderà tutti i figli: la morte di Anastasija nel 1926 la porta a scoprire una dimensione più profonda della maternità, suscitandole il desiderio di diventare «madre di tutti». Gajana muore in Russia nel 1936, Jurij poco prima di lei a Buchenwald.

Nel 1932 Elizaveta ottiene il divorzio religioso e prende i voti, con l’approvazione del marito, diventando mat’ Marija. Nel 1935, insieme ad altri intellettuali russi in esilio, tra cui Nikolaj Berdjaev e Sergej Bulgakov, fonda l’«Azione ortodossa», la cui attività spazia dall’organizzare conferenze all’offrire un lavoro o un piatto di minestra all’ultimo dei vagabondi.

Con la guerra arrivano a Parigi i nazisti e la follia antisemita. Per i cristiani dell’«Azione ortodossa» è del tutto naturale soccorrere in ogni modo gli ebrei, fornendo loro rifugi, documenti e soprattutto certificati di battesimo falsi. La repressione non tarda ad arrivare: tra gli altri vengono arrestati e deportati mat’ Marija, suo figlio Jurij, l’assistente spirituale padre Dimitrij Klepinin.

Mat’ Marija muore nel lager di Ravensbrück il 31 marzo 1945: il giorno prima, venerdì santo, si era offerta di prendere il posto di un’altra donna selezionata per la camera a gas.

Il percorso di Mat’ Marija, canonizzata dalla Chiesa ortodossa nel 2004, ricalca quello di moltissimi intellettuali russi del primo Novecento che da posizioni rivoluzionarie approdano alla fede. Un’anticipazione di questo percorso così peculiarmente russo può essere rintracciata già in Dostoevskij, cuore assoluto, punto di fuga di tutta la cultura russa, e non solo, tra Ottocento e Novecento, e non solo: spirito universale in cui si riassumono tutti i tempi, quelli a venire come quelli passati. “Dostoevskij rivelò profeticamente tutti i fondamenti spirituali e le energie motrici della rivoluzione russa” scrive Berdjaev “egli comprese che la somiglianza tra la santità rivoluzionaria e quella cristiana è la somiglianza ingannevole dell’Anticristo con il Cristo”.

I giusti. Gli eroi sconosciuti dell'olocausto - Gilbert Martin


Nelle tenebre di una Europa dominata dal Nazismo, 20.000 individui, uomini e donne (secondo il Centro di Documentazione ebraico di Yad Vashem), non ebrei e la maggior parte cristiani ma anche musulmani, misero a repentaglio la propria vita per salvare gli ebrei perseguitati e braccati dalla Gestapo. "Cos'altro avrei dovuto fare?", commentano quando si chiede loro perché l'hanno fatto. Il Talmud ricorda che "Chi salva una vita salva il mondo intero", ed è per questo che lo Yad Vashem, Museo e archivio dell'Olocausto, a Gerusalemme, li ricorda e li onora perché la loro memoria non vada perduta. Il libro di Sir Martin Gilbert esamina paese per paese il ruolo svolto in Europa da questo esercito di Giusti per strappare alla morte gli ebrei: dalla Polonia alla Norvegia, dai Balcani alla Francia, dalla Lituania all'Italia, volti, nomi, paesaggi, racconti si dipanano in un lungo fiume di straordinaria umanità.

sabato 26 novembre 2011

ORGANIZZAZIONE SOCIALE E CONVIVENZA

Mitterndorf. Veduta dell'accampamento

Una serie di norme regolavano la vita nell'accampamento; esse erano generalmente accettate e applicate, anche perché il loro rispetto andava a beneficio di tutti e di ciascuno.

Ciò corrispondeva, d'altronde, alla cultura e all'educazione della nostra gente.

Venivano rifiutate, invece, quelle disposizioni che non derivavano da uno stato di necessità, dall'esigenza di una pacifica convivenza, dalla tutela della salute.

Per esempio: "A noi profughi si proibisce, a scanso di gravi castighi, di raccogliere da terra una noce, una patata; ci s'intima severamente di non raccogliere un dente-di-leone, un po'd'erba per sfamarci.

Mia cognata era andata a raccogliere una mano di stecchi che avrebbero servito per accendere il fuoco un paio di volte.

Se ne tornava verso le baracche, quando fu fermata da una guardia, che sta all'entrata dell'accampamento, e la costrinse a deporre il fascetto che teneva nel grembiule.

Andando a passeggio vidi una bambina che veniva per le strade adagino, tenendo in mano alcuni papaveri. La piccola guardava seria i suoi fiori e li teneva stretti come un tesoro.

Ma ecco appressarlesi un ispettore del lager.

Le disse con cipiglio qualche parola che io non intesi, le tolse i fiori, li lacerò accuratamente e poi li gettò in una cassetta della spazzatura.

La bimba proseguì per la via, guardandosi mortificata le manine vuote". (Boccher).

La cittadella di legno doveva rispondere alle molteplici esigenze della vita comunitaria dei profughi, oltre che al loro mantenimento e all'assistenza medico-infermieristica.

Si dovette dare perciò una precisa struttura organizzativa.

Mitterndorf. Giovanni Hueller, il primo da sinistra, nel corpo di polizia

DIREZIONE GENERALE DELL'ACCAMPAMENTO. 
Era affidata al commissario governativo barone Viktor Imhof; sede del comando era la Barackenwaltung. Nel 1918 al barone succedette l'ing. sup. F. Schmidkunz.

ISPETTORATO.
L'ispettore superiore dott. Cesare Loss aveva il compito di provvedere all'ordine pubblico, alla sistemazione nelle baracche, all'assegnazione di materiale di vario genere e alla dispensazione del vitto.
A lui facevano riferimento i capi-sezione che, a loro volta, coordinavano sette, otto capi baracca.
Questi ultimi erano tenuti a presentare dei rapporti sulle necessità dei profughi e su quanto avveniva entro il loro ambito; prendevano in consegna il rancio confezionato nelle cucine e ne sorvegliavano la somministrazione; si occupavano della distribuzione del vestiario.

COMITATO PROFUGHI.
Delegato del comitato di soccorso per i profughi del Tirolo meridionale, con sede a Vienna, era il consigliere aulico Bonfioli Cavalcabò.
Aveva, tra le sue incombenze, quella di sorvegliare il trattamento dei profughi, di esaminare i reclami presentati e di effettuare le indagini necessarie.
Per questo era nel lager un paio di volte la settimana.

SEGRETARIATO DEL POPOLO.
Era al servizio dei profughi per dare informazioni, stendere domande (di sussidio militare, di pensione, di trasferimento, di rimpatrio), suppliche, ricorsi.

CANCELLERIA D'EVIDENZA.
Teneva l'anagrafe della popolazione (che era piuttosto fluttuante per le numerose partenze e i continui arrivi), di sbrigava pratiche e dava informazioni legali.

Mitterndorf. I capi-baracca

ORDINE PUBBLICO E SICUREZZA.
Riguardo a ciò, la responsabilità era affidata alla gendarmeria.
Un corpo particolare di polizia, composto di un centinaio di trentini con proprie divise e gradi, si occupava di piccoli furti, di qualche vandalismo e di trasgressioni di non rilevante importanza.
Alcuni di essi furono di Roncegno: Giovanni Hueller, Rìccardo Postai, Silvio Dandrea ...
Un corpo di una quarantina di pompieri garantiva la sicurezza civile.

SCUOLE E ISTITUTI DI ASSISTENZA EDUCATIVA.
Anche per la presenza nel lager di molte insegnanti trentine, dal gennaio del 1916 gli scolari poterono frequentare le lezioni piuttosto regolarmente; le malattie, le difficoltà di riscaldamento nei periodi più freddi dell'anno, i trasferimenti delle famiglie, il pessimo ambiente delle baracche furono gli ostacoli maggiori a una fruizione compiuta del servizio scolastico.
Nel periodo di massima espansione dell'accampamento vi funzionavano 54 classi ospitanti 2169 scolari.
Don Cesare Tiso, professore del collegio vescovile di Trento, sovrintendeva alla scuola elementare, all'asilo, all'orfanotrofio maschile e femminile.
I piccoli, frequentando l'asilo e la scuola, stando in comunità, sentivano meno degli adulti, anche per loro natura, le sofferenze conseguenti alloro stato.
Le attività educative, i giochi, le passeggiate lungo il Fìscha riempivano d'interesse le giornate.
Le scuole erano per noi un paradiso: belle e accoglienti, e brave le maestre. Quando c'era una festa cara ai bambini (S. Nicolò, Natale. .. ), ci offrivano anche dei doni, si addobbava l'albero, si recitava. Frequentai subito l'asilo. Ricordo ancora la grande sala in cui ci si radunava e le canzoni imparate in occasione delle feste. Poi passai alle elementari, con una maestra di Mori.
I giochi proseguivano anche dopo scuola, individualmente o in gruppo. E i più grandicelli erano impegnati anche in prestazioni di pubblica utilità. Terminata la scuola, ci davano una fascia da mettere al braccio e si andava a pulire strade e a far lavori di ordinaria manutenzione.

Mitterndorf. La Chiesa

ASSISTENZA RELIGIOSA.
Nei primi mesi i profughi potevano servirsi poco della chiesa del villaggio perché, data la scarsa capienza, era loro sconsigliato di frequentarla.
La chiesa del lager, significativamente dedicata alla Fuga in Egitto, fu consacrata per il Natale del 1915.
La canonica ospitava undici sacerdoti trentini, diretti da mons. Luigi Brugnolli, parroco di Borgo Sacco.
Le suore francescane missionarie di Maria (suore bianche) operavano nell'orfanotrofio femminile, nell'asilo, negli ospedali, nei ricoveri.
Le suore della venerabile Capitanio (suore nere) conducevano l'orfanotrofio maschile.
Le suore canossiane furono chiamate, nell'ultimo anno, a dirigere le cucine.

SERVIZI VARI.
Funzionavano: la farmacia, il telefono, il telegrafo, la posta, la "kantine" (bar con servizio ristorante per gli impiegati), la casa del popolo (per proiezioni cinematografiche, spettacoli teatrali e manifestazioni di interesse generale).
Andavamo talvolta al cinema tedesco: non si capiva una parola. Si partecipava un poco quando le vicende rappresentate si riferivano ad ambienti e situazioni a noi familiari o parzialmente identificabili.

ALTRE OCCASIONI DI AGGREGAZIONE: la "schola cantorum", la banda musicale, la filodrammatica, l' orchestrina, gli scout.
Per essere accettati a far parte dei giovani esploratori bisognava avere nove anni. lo ne avevo soltanto otto, ma desideravo entrarvi. Il papà allora ne fece figurare uno di più, così diventai uno scout. Si dormiva in caserma e si andava a scuola inquadrati come militari. Con il gruppo facevo compiti, qualche servizio e passeggiate.

IL LAVORO.
Chiunque avesse avuto possibilità e capacità di lavorare nel lager poteva e doveva farlo.
E anche se il salario percepito non aveva particolare rilevanza, corrispondendo a un valore poco più che simbolico, tuttavia il fatto di produrre cose utili a soddisfare le esigenze dei baraccati si rivelò un bene comune e una gratificazione personale; le prestazioni di lavoro collettivo stimolarono alla vitalità, costituirono, se non altro, un antidoto all'inazione che altrimenti avrebbe depresso lo spirito e il corpo già fiaccati dall'esilio, dalle sofferenze e da tante privazioni.
Le cucine, il panificio e le lavanderie assorbirono parte della manodopera disponibile tra i profughi, così come i diversi laboratori artigianali (falegnamerie, officine meccaniche, scuola di merletti e ricamo, fabbricazione di cesti).
Vere e proprie fabbriche, inoltre, occuparono la gran massa delle donne con capacità lavorativa: 500 trovarono posto nella sartoria, dove erano state installate 270 macchine e, con il 1917, alcune centinaia nella fabbrica delle scarpe.
Altre ancora si dedicarono a confezionare calze a mano e trapunte, e non poche furono collocate nelle fabbriche esistenti nei paesi limitrofi.
Roncegnesi trovarono occupazione e migliori condizioni di vita in vari paesi dell'Austria, lavorando specialmente nelle campagne.

Mitterndorf. La sartoria

C'era lavoro per tutti. Le donne anziane che non potevano andare in fabbrica prendevano da fare calze a casa, sempre a pagamento. lo lavoravo nella fabbrica della rete, e la nostra maestra era la mamma del Brando, una buona donna veramente. Mi dedicai poi a ricamare tovaglie per la chiesa e successivamente mi occupai nella fabbrica delle scarpe. Ho sempre tenuto il martelletto per ricordo. La fabbrica delle scarpe era strutturata in reparti in cui si svolgevano le varie fasi della produzione. lo vi lavoravo in ufficio. Finito l'obbligo scolastico, andai nella fabbrica delle scarpe. Ero alla pressa, dove si preparavano le suole. La festa andavo anche in Ungheria e, in cambio di patate, facevo qualche servizio presso una famiglia. Avevo tanta salute e lavorai tanto, ma ebbi anche soddisfazione perché tutti mi rispettavano e mi apprezzavano. La mamma lavorava presso contadini, il lavoro era però massacrante: la mattina si alzava prestissimo e la sera si coricava tardi. Per questo preferì andare a lavorare nelle cucine dell'accampamento dove si trovò meglio, anche perché allora c'erano le suore. Lavorai inizialmente nella sartoria a confezionare càmici di tela da lavoro. Il sabato era dedicato alla pulizia delle macchine e della sala. Poi passai nella fabbrica di munizioni a riempire sacchetti di polvere. La "Frauschwsier" ci faceva alzare alle 5, per essere al lavoro alle 6. Alle 12 sospendevamo per il pranzo. Riprendevamo all'una, per concludere la giornata di lavoro alle 6. Ho ancora ben presente l'episodio dello scoppio avvenuto in fabbrica e dell'incendio che ne seguì. Era circa mezzanotte, quando si sentì un enorme fragore: tutti i vetri della baracca andarono in frantumi.Uscimmmo precipitosamente, così com'eravamo, e, saltata la recinzione, fuggimmo per i prati. Di tanto in tanto ci voltavamo a guardare le fiamme che si levavano altissime. Girovagammo per tutta la notte e solo verso mattina facemmo ritorno in baracca. La mia prima esperienza di lavoro mi portò in giro per il campo a vendere caramelle. Più tardi seguii la famiglia in un paese nelle vicinanze di Innsbruck. lo lavoravo in una fabbrica di mattoni e tegole, e il papà come scaricatore di merci alla stazione. Poi ci trasferimmo in un altro centro presso una famiglia di contadini. Là cominciammo a star meglio e a recuperare fisicamente. Infine lavorammo per un grosso contadino ebreo, che non ci faceva mancare il necessario, ma guai se ci vedeva raccogliere anche solo "farinelle" nei campi! Con il papà e mio fratello andai a lavorare per due estati vicino al confine con la Stiria: avevo allora dodici anni. Lavoravamo dieci ore al giorno alla costruzione di una strada che doveva portare alla residenza di un barone, posta su un colle. Il gruppo dei lavoratori provvedeva a [ars! da mangiare. Non mancava proprio niente: dai contadini comperavamo latte, patate, orzo, farina bianca e anche carne di capriolo. Così aumentai di undici chili in tre mesi. Il capo operai, un fiammazzo di Cavalese, aveva sposato una viennese; erano ambedue persone proprio buone, alle quali ci affezionammo. Questi sposi, che non avevano figli, desideravano che io rimanessi con loro: mi avrebbero affiliato. Lavoravamo fino al sabato alle due, così potevamo ritornare frequentemente a Mitterndorf per trovare i nostri familiari e portar loro generi alimentari.

La SS in quanto Ordine


La SS è un Ordine di Tipo Nordico, la cui essenza è fondata sull’essenza immutabile della specie nordica. Il Popolo ed il Reich, devono essere il divenire strutturale di questa Natura Nordica. In quanto Leader dei popoli germanici, il Popolo tedesco ha per missione predestinata di attuare la lotta per la rinascita del Germanesimo. La Razza Nordica costituisce anche la maggiore fonte ereditaria del Sangue Nordico. Il primo obbiettivo del Nazional Socialismo, dev’essere quello di condurre una sana politica razziale. Quest’ultima, esige un’epurazione dal popolo tedesco, d’ogni influenza estranea e straniera; sia al livello del sangue che del carattere. La rr seleziona dunque i suoi membri, a partire dall’ideale della razza nordica, per formare un Tipo Germanico libero.

Dato che di primo acchito è impossibile giudicare del valore d’un’anima umana, la selezione si effettua a partire dall’ideale fisico della Razza Nordica, e dalla statura. L’esperienza ha dimostrato che il valore e l’attitudine d’un uomo, corrispondono principalmente a ciò che il suo aspetto razziale suggerisce. Per la collettività, la rr deve essere ben altro che una semplice Männersbund; con la sua azione combattente essa opera una selerione razziale, e costruisce il futuro del popolo a partire dall’ideologia e dalle Comunità dei propri Clans.

Essa è un Ordine di “Famiglie” e Clan, che promuove la nascita di uomini della migliore Stirpe Nordica, al servizio del Reich Germanico. Perciò la sua selezione non valuta solo l’individuo, ma il valore d’un intero Clan familiare. Questa scelta di tipo biologico, prevede l’attento controllo delle “Spose” e della discendenza degli individui SS selezionati.

L’appartenente all’Ordine Nero, deve unirsi a donne che hanno il suo stesso valore razziale e caratteriale. Non è solo il valore del patrimonio ereditario, a determinare la forza d’un Popolo. Nella lotta per uno Spazio Vitale ed il diritto alla Vita, la fecondità d’una stirpe, ovvero il numero dei suoi bambini, risulta essere un fattore decisivo. Il “Lebensborn” o fonte di vita, veglia alla preservazione ed all’accrescimento del puro sangue nordico, e nelle sue Case Materne si allevano i bambini del risorto Popolo Tedesco.

Cio' che noi rr vogliamo essere.

1. Un Ordine militare di SS, formato politicamente, e scientificamente, con degli uomini forti nell’istinto e nell fisico.

2. Un Ordine d’uomini che, per valore, dignità, integrità, ed attitudine esteriore, possono suscitare e conservare la fiducia altrui.

3. Un Ordine che si afferma nella vita per il suo costante impegno verso la Natura.

4. Un Ordine ideologicamente schietto, che non può accettare alcuna ingiustizia, nel suo cammino libero da compromessi, se non manifestando istintivamente la propria franchezza ideologica, presente in tutte le sue azioni.

5. Un Ordine di soldati formati scientificamente, che vedono che ogni promozione gerarchica non è una promozione di “Signori”.

6. Un Ordine di soldati che non si esprimono che su ciò che conoscono in maniera rigorosa e diretta; che sanno che avere un Nome implica un dovere.

7. Un Ordine di soldati la cui ambizione è di portare nomi che significano qualcosa, e non d’essere i detentori di titoli del tutto anonimi.

8. Un Ordine di soldati che hanno il coraggio, virile, di riconoscere il valore dei Grandi Uomini del loro Popolo, come pure il lavoro disinteressato degli altri, e che sono perfettamente consapevoli di ciò di cui sono capaci. La qualificazione ed il risultato devono venire per primi, e non certo le decorazioni, o i Titoli acquisiti.

9. Un Ordine di soldati che non ha alcun bisogno di consumarsi nell’ambizione, o di invidiare gli altri per ciò che essi sono.

10. Un ordine di soldati che, per la loro semplicità personale, possono adattarsi a tutte le situazioni: Uomini che considerano il danaro come uno strumento di servizio, e che sono ben decisi a scartare i Parvenus.

11. Un Ordine di soldati, per i quali, il genotipo razziale determina l’appartenenza all’Organizzazione. La Razza, ed il Sangue, sono la nostra Coscienza di Classe: il nostro vero Titolo di Nobiltà.

12. Un Ordine di soldati che considerano il Führer come l’Autorità Suprema, e vogliono essere un modello di fedeltà, obbedienza, azione, giusta attitudine, ed impegno personale, per il Führer e la sua idea.

13. Un Ordine di soldati formati scientificamente, nel quadro di una Comunità di Clan di tipo nordico, di uomini, donne, e bambini, razzialmente e biologicamente sani: gli Antenati delle Generazioni Future.

La Legge dell’Onore


Lo stesso Ordine prescrive che ogni SS ha il diritto ed il dovere di difendere il proprio onore armi alla mano. Questa legge è d’una importanza fondamentale, ed impegna ogni uomo da un duplice punto di vista: Egli sa, in primo luogo d’essere sempre tenuto per responsabile d’ogni sua parola ed atto, quale che ne sua il rango e la collocazione gerarchica. Secondariamente, è indotto a rispettare il proprio onore quanto quello altrui, per servire in quanto soldato politico.

Quando è venuto il giorno della presa del Potere, c’erano 51.000 sostenitori, e l’affluenza alle nostre formazioni divenne così elevata, nei mesi seguenti, che il 10 luglio del 1933 venne prescritto un blocco all’ammissione nei ranghi rr; limite che non fu tolto, temporaneamente, che nel settembre del 1934. Ciò perché il Reichsfürer, in ogni tempo, non ha dato alcun valore ad una organizzazione di massa, ed ha preteso l’esame più che severo di tutti i nuovi arrivati, per non correre il rischio d’incorporare nei ranghi dell’Ordine Nero forze che non fossero realmente le più valide e le più sane.

La Carriera di SS


Il 9 novembre del 1935, su ordine del Reichsführer venne promulgato quanto segue:

“ È un SS, nello spirito dell’Ordine Nero, ogni suo membro che, dopo un periodo di un anno e mezzo, come candidato, dopo avere prestato il giuramento SS al Führer, e dopo avere compiuto onorevolmente i suoi doveri nel Servizio del lavoro, ed i suoi obblighi militari, riceve l’arma: il pugnale , ed è ammesso all’Ordine come auterntico SS, che sia di semplice grado o Reichsführer. Dopo un minuzioso esame della Commissione SS, per quanato riguarda le sue attitudini ed il suo valore, il ragazzo della Hitlerjugend di 18 anni, diviene postulante SS.

Durante il Parteitag dello stesso anno, egli aderisce all’Ordine in qualità di candidato, ed il 9 novembre, dopo un breve periodo probatorio, presta giuramento al Führer. Durante il primo anno di servizio, il giovane candidato deve acquisire il suo “Insigne Sportivo del Reich” in bronzo. Immediatamente dopo, va al Servizio del Lavoro, alla Wermacht, e, in seguito, ritorna alla rr . Il 9 novembre seguente, dopo un’educazione ideologica profonda e ripetuta, il candidato SS è definitivamente ammesso all’Ordine. A partire da questo giorno, egli ha il diritto di portare il pugnale SS, e promette che lui e il suo Clan seguiranno sempre le leggi fondamentali dell’Ordine Nero.

Egli rimane nella Allgemeine rr fino a 35 anni. In seguito è ricevuto, su sua richiesta, nella di riserva rr, e, dopo i 45 anni nella sezione SS Madre.

La terribile storia di José Cabrero Arnal, autore per bambini

José Cabrero Arnal è l'autore sotto i riflettori del numero attuale di Période Rouge.
 E' stato uno di quei fumettisti che hanno allietato generazioni di bambini (e non solo) con fumetti di animali antropomorfi. Nato cento anni fa (il 7 settembre 1909 a Barcellona), il disegnatore di animaletti simpatici per bambini aveva alle spalle una storia di orrore durata anni. Il 26 gennaio 1939 le truppe franchiste entrano a Barcellona dopo tre anni di guerra civile (e 900.000 morti). Il 27 febbraio i governi francese e britannico riconoscono il nuovo governo del dittatore Franco, sostenuto da Hitler e Mussolini, e i repubblicani come Arnal, dopo aver già visto ogni orrore possibile, si cercano rifugio in Francia. 500.000 spagnoli, civili e militari, passano la frontiera e chi non riesce a fuggire viene arrestato dalla Polizia francese (per la quale, evidentemente, non sono rifugiati politici, ma clandestini - ricorda qualcosa di attuale e nostrano, per caso?). Insieme a tanti altri Arnal viene internato nel campo di Argelès, che vedrà passare 100.000 repubblicani spagnoli. Ne moriranno 15.000 in cinque mesi. Arnal ne passerà più d'uno di questi campi, nei quali vedrà morire bambini come mosche. Allo scoppio della guerra Arnal andrà volontario nell'esercito francese e verrà catturato dai nazisti che lo porteranno a Mauthausen, il mostruoso campo di concentramento e sterminio.

Là, scoperta la sua professione di disegnatore, viene costretto a disegnare nefandezze per i boss del lager. Alla fine della guerra, sopravvissuto a tutto ciò, malato e stremato (come tutti i sopravvissuti) non può tornare in Spagna (che resterà sotto il giogo della dittatura fascista ancora per molti anni). Va in Francia, dove non può ottenre la cittadinanza perché è schedato come "comunista" e vive in miseria. Saranno proprio i veri comunisti francesi a dargli lavoro come fumettista, e Arnal crea la serie di avventure del cane Pif, che darà il suo nome alla rivista. Torna dunque finalmente a vivere della propria arte e disegna per i bambini, conservando dentro di sé ricordi terribili.

'Non sono passata per il camino' - Francine Christophe


«Non sono passata per il camino» è il titolo del libro nel quale Francine Christophe narra la sua terribile esperienza nei campi di concentramento nazisti. Tra gli 8 e i 12 anni, infatti, la signora Francine è stata costretta ha compiere una peregrinazione tra vari lager francesi e tedeschi, culminata nel campo di sterminio di Bergen Belsen, lo stesso dove si trovava Anna Frank.

Dal lager a Porlezza - Storia di "natalibera"


Maria Rosa Romegialli abita a Milano ed è l’unica neonata - per quanto è dato sapere - sopravvissuta ai lager nazisti. Si è calcolato che lì, dove l’uomo dimenticava di essere umano, siano stati sterminati due milioni di bambini e bambine. Maria Rosa grazie all’eroismo della madre, Augusta Romegialli, si è salvata. Ora dà voce e cuore al sacrificio materno e testimonia con la sua persona come l’ultima parola non spetta alla morte, ma alla vita.

Chi era per lei Augusta Romegialli?

Augusta era mia madre, la persona più importante al mondo perché donò tutta se stessa per darmi la vita. Madre di cinque figli, era una donna energica e tenace. Fu una delle prime a Morbegno a organizzare degli scioperi presso la filanda dove lavorava. Aveva a cuore la libertà in quegli anni di dittatura nazifascista e aiutò con generosità gli americani guidandoli nei valichi per la Svizzera.

Per quale motivo fu deportata in Germania?

Dopo l’esperienza in fabbrica, lavorò nella segheria valtellinese della Todt sotto giurisdizione tedesca. In seguito a una delazione mia madre fu denunciata all’ispettore governativo fascista Tagliabue perché ritenuta una sovversiva collaborazionista degli alleati. Venne condotta con veemenza in una delle classi del plesso scolastico di Morbegno e fu torturata, costretta a rimanere seduta per ore su una sedia cosparsa di puntine. Partì dalla stazione di Sondrio, insieme con altri deportati tra cui un folto numero di valtellinesi e raggiunse Auschwitz il 6 febbraio 1944. Rimase lì fino a inizio estate, poi ad agosto arrivò nel campo di Dachau. Durante quel viaggio un militare tedesco abusò del suo corpo.

Quando si accorse di essere incinta cosa decise di fare?

Dapprima la violenza subita causò in mia madre rabbia e frustrazione. Poco tempo dopo intuì che dentro di lei stava germogliando il seme della vita. Ebbe paura, molta paura. Sapeva benissimo come i tedeschi trattavano i bambini. Tanti incontravano la morte nelle camere a gas, altri venivano annegati o strangolati dagli stessi gerarchi nazisti. Nel campo di Dachau una mattina, incontrò incredibilmente Stanislao, il maestro dei suoi figli Pierino e Sergio. Quel ritrovarsi fece ricordare ad Augusta il suo paese, il panorama rasserenante della valle e la gioia della famiglia. Si ricordò di quanto fosse felice mentre aspettava il parto. Decise che doveva essere così anche questa volta, nonostante l’orrore quotidiano cui erano costretti i suoi occhi.

Nei campi tutto assumeva i contorni bestiali di una disperata lotta alla sopravvivenza fra gli internati, ci fu spazio per la solidarietà umana?

Nel dicembre del ’44 mia madre venne trasferita nella fortezza austriaca di Mauthausen. Alcuni mesi prima nello stesso campo fu deportato il partigiano Giuliano Pajetta. Conobbe Augusta, il segreto che custodiva e si persuase che fosse giusto salvare il bambino. Pajetta conosceva le maggiori possibilità di reperire del cibo nei sottocampi, dove mancavano forni crematori, camere a gas e in media si viveva di più. Lui era sulla lista dei nominativi destinati al campo secondario di Graz affinché da lì potesse guidare i sabotaggi interni. Cedette il suo posto a mia madre con la promessa di chiamare il figlio "Natolibero" a ricordo della vittoria contro il nazismo.

Come riuscì sua madre, ormai avanti nella gravidanza, a sopravvivere e fuggire?

Nel campo di punizione della Gestapo a Graz, mia madre lavorava come sguattera nelle cucine. Quel genere di occupazione fu decisivo per lei e per la mia sopravvivenza. Augusta nelle cucine era riparata dal freddo e poteva nutrirsi regolarmente con gli avanzi. Il fatto che lavorava al primo piano dell’edificio facilitò la sua fuga che avvenne la notte del 2 marzo del ’45 durante un bombardamento americano. Gli alleati volevano colpire uno stabilimento vicino, lo Steyr-Daimler-Puch, dove i tedeschi producevano aerei. Squarciarono anche la struttura che comprendeva le cucine. Mia madre, complice il trambusto e la situazione d’allarme riuscì a scappare. Stremata, trovò ricovero presso l’ospedale di Santk Leonhard. Il 14 marzo vi furono altre offensive aeree, due attacchi coinvolsero una parte del reparto maternità. Io nacqui quella notte in un cortile, mentre molti fra medici e pazienti morirono ustionati dalle bombe incendiarie, compresa la mia levatrice. Augusta scelse il nome Maria Rosa. "Natolibero" rimaneva comunque il simbolo di quella battaglia contro le barbarie totalitarie.

Possiamo, dunque, dire che il destino si mosse e dal cielo sancì la sua nascita?

Sì, le mani della Provvidenza protessero la mia nascita e i miei primi respiri dentro una borsa, accanto ad una bottiglia d’acqua calda. Poi furono le mani di agricoltori e montanari solidali a sfamare e ospitare una donna in fuga con una neonata. Mia madre impiegò venti giorni per attraversare il Tarvisio, abbandonare la Stiria e dirigersi verso Villach. Percorse sempre strade secondarie poco battute. A ogni sosta non le venivano negati un bicchiere di latte e un letto sotto il quale coricarsi. Tornò in Italia con un treno della Croce Rossa.

Tuttavia il calvario per Augusta non finì, vero?

Quando arrivò alla stazione ferroviaria di Milano, non c’erano sorrisi e abbracci ad attenderla. Era sola e desiderava rituffarsi nella normalità di Morbegno, riassaporare il calore del focolare domestico e con una carezza ai figli cancellare di colpo le sofferenze patite. Al ritorno in paese fu travolta da un fiume di malelingue, dicerie infamanti e false denigrazioni. Spesso le donne che sopravvivevano ai lager, erano considerate collaborazioniste o prostitute e venivano brutalmente emarginate. Non erano destinatarie dello stesso grado di riconoscimento concesso ai partigiani, perché a dir loro erano «colpevoli di non aver ucciso un nemico». La madre di Augusta le diede il benvenuto con questa frase: «Non avrai per caso combinato qualcosa con un tedesco per essere tornata? Ti proibisco di rivedere i tuoi figli, per me sei un fantasma». Augusta, dopo la morte di tubercolosi del marito Franco (contratta nel ’43), davanti all’ostilità pervicace di parenti e compaesani partì per Milano, dove ad aspettarla, c’eravamo io e i miei futuri genitori adottivi.

Morto Carlo Gamba, superstite della strage di Sant'Anna di Stazzema


(02.11.2011) È scomparso Carlo Gamba, 85 anni, superstite della strage di Sant'Anna di Stazzema e gestore del negozio di alimentari nella piazza della chiesa del paese in Alta Versilia. Deportato per 18 mesi nei campi di concentramento e di lavoro, riuscì a salvarsi dall'eccidio in cui morirono diversi bambini, donne e anziani.

«Ha vissuto una vita da film - ha commentato il sindaco di Stazzema, Michele Silicani - è riuscito a tornare a piedi a casa dalla Germania dove era stato portato a lavorare. Se ne è andato un pezzo di storia di Sant'Anna». Nella strage Gamba perse la madre, la nonna, un nipote, una cognata e altri parenti.

Het Parool Archive 1940-1945


Si tratta della digitalizzazione dell’Het Parrol, quotidiano clandestino durante l’occupazione nazista dei Paesi bassi.

La stampa illegale fiorì durante l’occupazione tedesca: alcuni titoli apparvero per un breve periodo, mentre altri furono pubblicati durante tutto l’arco dei cinque anni di occupazione.

Porta di Sion


La città della Spezia è conosciuta come Porta di Sion. Alla fine della seconda guerra mondiale il Golfo della Spezia divenne infatti la base di partenza degli scampati ai lager nazisti, che ora guardavano al mare con la speranza di lasciarsi alle spalle l’Europa degli orrori e di raggiungere la “Terra promessa”.

Dall’estate del 1945 alla primavera del 1948 oltre ventitremila ebrei riuscirono a lasciare clandestinamente l’Italia diretti in Palestina. La potenza mandataria della Palestina, la Gran Bretagna, aveva infatti emesso il Libro Bianco del 17 Maggio 1939 per regolamentare l’afflusso controllato in Palestina di soli 75 mila ebrei in 5 anni. Una misura che fu messa in crisi dalla drammatica situazione europea e contrastata con ogni mezzo dal Mossad Le Aliyà Bet (Istituto per l’immigrazione illegale sorto nel 1938).

A partire dal Maggio 1945 una notevole corrente di ebrei cominciò ad affollare la Penisola e il Mossad Le Aliyà Bet inviò un responsabile in Italia con base a Milano, Yehura Arazi. Altri membri del Mossad furono inviati in Italia tra i soldati della brigata ebraica al seguito degli alleati.

La prima nave di profughi, il Dallin (già Sirius) partì da Monopoli il 21 Agosto 1945 con soli 35 immigrati a bordo.

La questione dell’immigrazione ebraica scoppiò come caso internazionale nel Maggio 1946: l’epicentro della crisi divenne il porto della Spezia dove erano in allestimento due imbarcazioni, la Fede di Savona e il motoveliero Fenice, pronte a trasbordare 1014 profughi.

Quell’operazione godette dell’aiuto di tutta la città della Spezia, già stremata dalla guerra e distrutta dai bombardamenti. Proprio il sostegno della gente, resistenza dei profughi, intervento dei giornalisti di tutto il mondo e la visita a bordo di Harold Lasky, presidente dell’esecutivo del Partito Laburista britannico, costrinsero le autorità londinesi – le cui navi bloccavano l’uscita dal porto della Spezia – a togliere il blocco alle due imbarcazioni che salparono dal molo Pirelli a Pagliari alle ore 10 dell’8 Maggio 1946.

L’accoglienza della comunità e la solidarietà delle autorità spezzine convinsero gli organizzatori del Mossad a puntare sulla Spezia con operazioni di maggior peso. Così nella notte tra il 7 e l’8 Maggio 1947 la nave Trade Wins/Tikya , allestita in Portogallo, imbarcò 1414 profughi a Portovenere.

Nelle stesse ore era giunta nelle acque del golfo della Spezia, proveniente da Marsiglia, la nave President Warfield, un goffo e pesante battello adatto a portare turisti giù per il Potomac, da Baltimora a Norfolk in Virginia. La nave venne ristrutturata nel cantiere dell’olivo a Portovenere per la più grande impresa biblica dell’emigrazione ebraica: trasportare 4515 profughi stipati su 4 piani di cuccette dall’altra parte del mediterraneo. L’imbarcazione divenne un simbolo, prese il nome di Exodus, raggiunse le coste della Palestina, venne attaccata dagli inglesi e avviò la nascita dello stato di Israele.
A narrarci le peripezie dei profughi dello sterminio ebreo ci ha pensato nel 1958 Leon Uris con il celebre romanzo Exodus, tema ripreso nel libro il comandante dell’Exodus di Yoram Kaniuk. A Exodus è dedicato anche un bellissimo film del 1960 di Otto Preminger interpretato da Paul Newman, Peter Lanfoird ed Eva Marie Saint.

La Exodus mosse dal golfo della Spezia ai primi di Luglio del 1947, sostò a Port-de-Bouc, caricò a Séte, fu assalita e speronata dai cacciatorpedinieri britannici davanti a Kfar Vitkin.

Ci furono morti a bordo, gente che era sopravissuta ai lager e che finì i suoi giorni a due passi dalla speranza nelle acque tra Netanya e Haifa. Dopodiché gli inglesi rimandarono i profughi ad Amburgo al campo di Poppendorf, un ex lager trasformato in campo di prigionia per gli ebrei.

Il nome di Exodus da allora significò il desiderio di giustizia per l’emigrazione ebraica. Ma solo con la fine del mandato britannico i profughi sarebbero potuti tornare in Palestina.

La Fede, il Fenice e la Exodus si mossero tutte dal golfo della Spezia, una dicitura che non compare nelle carte geografiche israeliane. La Spezia in Israele è infatti indicata col nome di “Schàar Zion” Porta di Sion.

Nel nome di Exodus la città della Spezia porta nel mediterraneo l’idea della pace e della convivenza e opera tramite il Comitato Euro Mediterraneo Cultura dei Mari, presieduto dal sindaco della Spezia, per il dialogo tra i popoli.

Ogni anno La Spezia ospita il premio Exodus dedicato all’interculturalità.

Il 25 Aprile 2006 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito al Comune della Spezia la medaglia d’oro al merito civile per l’aiuto prestato dalla popolazione spezzina ai profughi ebrei scampati alla seconda guerra mondiale.

Dal libro di Marco Ferrari, Il porto di Exodus:

"Una memoria semplice racchiude una vicenda complessa. Noi, oggi, possiamo solo immaginare quello che accade allora: affidandosi al vento potremmo raccogliere gli echi... [...]

Tutto resterà impresso nei miei occhi, nelle foto, nelle immagini visive che hanno accompagnato nei primi anni del duemila la momentanea riscoperta di uno spazio dimenticato poiché in pochi sapevano o rammentavano che questo è il porto di Exodus".

Villa Emma


Nell’ottocentesca dimora chiamata Villa Emma, situata a Nonantola (Modena), oltre 70 ragazzi ebrei, provenienti da vari Paesi d’Europa, furono messi in salvo dalla persecuzione nazista grazie all’aiuto disinteressato e coraggioso della popolazione tutta che riuscì a farli fuggire in Svizzera.


Alcuni dei ragazzi che trovarono rifugio presso Villa Emma fotografati con i loro accompagnatori nell'inverno 1942-1943

Tra il luglio 1942 e il settembre 1943, 73 ragazzi ebrei di varia nazionalità vennero accolti nella ottocentesca Villa Emma di Nonantola (Modena). Questa grande villa era stata presa in affitto dalla DELASEM, un’organizzazione assistenziale per gli ebrei italiani che si occupò anche del sostentamento di questi ragazzi. Essi, per lo più orfani, provenivano dalla Germania, dall’Austria e da altri Paesi occupati dai nazisti: attraverso la fuga e la vita clandestina erano riusciti a sottrarsi alla persecuzione nazista. Nei primi tempi la permanenza dei ragazzi a Nonantola fu relativamente tranquilla, anche se in Italia vigevano da tempo le leggi razziali. Gli accompagnatori e gli educatori impegnavano attivamente i ragazzi nelle lezioni scolastiche e nei lavori agricoli e artigianali. I ragazzi, nel tempo libero, ebbero modo di venire a contatto con i loro coetanei del luogo e nacquero amicizie che, in parte, si sono mantenute fino ad oggi.

Dopo l’occupazione tedesca dell’Italia, seguita all’armistizio dell’8 settembre 1943, gli adulti e i ragazzi di Villa Emma compresero che la loro vita era in pericolo. Gran parte della popolazione di Nonantola si mobilitò allora per salvare i ragazzi. Fu grazie al medico Giuseppe Moreali e a Don Arrigo Beccari che i ragazzi poterono essere nascosti in parte nel seminario dell’abbazia di Nonantola, in parte presso diverse famiglie del paese. Dopo alcune settimane si organizzò la fuga in Svizzera e tutti i ragazzi di Villa Emma riuscirono a mettersi in salvo.

venerdì 25 novembre 2011

Addio all'ingegner Sale, decifrò Enigma


(05.09.2011) Ingegnere, ex ufficiale dell'aeronautica britannica ed ex cacciatore di spie, l'inglese Tony Sale è morto a Londra all' età di 80 anni. Anthony Edgar Sale realizzò la macchina Colossus, utilizzata per decifrare il codice Enigma, con cui Hitler e i suoi generali comunicavano segretamente. Una scoperta chiave per la vittoria degli Alleati nella Seconda guerra mondiale. Sale fu anche il creatore nel 1950 del primo robot umanoide in Inghilterra, chiamato George.

La guerra segreta di Enzo Ferrari, il Drake con i partigiani

La guerra segreta di Enzo Ferrari. Durante la seconda guerra mondiale, mentre apparentemente collaborava con l'esercito tedesco e con i fascisti, il Drake aiutava in segreto le unità partigiane nascondendo documenti importanti nella propria azienda e ospitando anche partigiani feriti. La sopravvivenza di Ferrari a questi anni drammatici gli permise di trasformare la sua azienda in un'icona dell'automobilismo mondiale. È questa la tesi del libro "Enzo Ferrari's secret war", opera del giornalista automobilistico e professore universitario neozelandese David Manton.

L'inizio dell'epopea industriale e sportiva di Ferrari si legò anche, come spiega Manton, alla Nuova Zelanda. La crescita del Cavallino Rampante coinvolse infatti una cerchia di personaggi di grande successo e carisma come Chinetti, Pininfarina e l'ingegner Gioacchino Colombo inventore del leggendario motore "V12", ma anche Pat Hoare, uno sconosciuto soldato e futuro pilota neozelandese che combattè in Italia. La sua azione, probabilmente, salvò la vita a Colombo e contribuì a garantire il futuro successo della Ferrari. Il libro di Manton racconta la storia di queste persone e del debito personale che Enzo Ferrari ritenne di aver contratto con la Nuova Zelanda e Pat Hoare. Quest'ultimo, pilota di Christchurch, poteva acquistare Ferrari monoposto quasi nuove direttamente dalla scuderia, nonostante il Drake avesse smesso da tempo di vendere auto di Formula Uno a privati. Un chiaro segnale di un'amicizia profondissima e di una riconoscenza che legavano Ferrari e Hoare.

Morta Nancy Wake, eroina della Seconda Guerra Mondiale


(08.08.2011) L'eroina della resistenza francese nella seconda guerra mondiale Nancy Wake, nata in Nuova Zelanda e cresciuta in Australia, la donna soldato più decorata della Seconda guerra mondiale, è morta domenica a 98 anni in un ospedale di Londra. Ospite di una casa di riposo per reduci di guerra da quando aveva subito un attacco cardiaco nel 2003, era in ospedale per un'infezione polmonare. Soprannominata "white mouse" (topo bianco) per la capacità di restare inosservata da parte della Gestapo che le dava la caccia, aveva lavorato come giornalista in Europa e aveva sposato un uomo d'affari francese. Rimasta intrappolata in Francia dopo l'invasione nazista, divenne staffetta della Resistenza, quindi sabotatrice e spia. Tradita da infiltrati, fuggì a Londra ma il marito fu torturato e ucciso dalla Gestapo. Successivamente si fece paracadutare in Francia e divenne il principale collegamento fra Londra e i gruppi locali della resistenza. «Era una donna di coraggio e di risorse eccezionali, i cui exploit temerari hanno salvato la vita di centinaia di soldati alleati e hanno aiutato a mettere fine all'occupazione nazista della Francia», ha detto la premier australiana Julia Gillard.

Nazismo, la Svezia assolve il padre della Regina


Walter Sommerlath, il padre tedesco della regina Silvia di Svezia, non sarebbe stato un membro attivo del partito nazista e avrebbe aiutato un ebreo tedesco a emigrare in Brasile dalla Germania. Sono questi i risultati di un'inchiesta commissionata a proprie spese dalla regina per fugare le ombre sul passato del padre. Inchiesta che è stata tuttavia accolta con scetticismo sia a Berlino sia a Stoccolma. Lo scorso maggio la televisione svedese Tv4 aveva accusato Sommerlath di avere approfittato del programma di "arianizzazione" di Hitler per prendere il controllo nel 1939 dell'industria dell'ebreo Efim Wechsler. Già in precedenza informazioni sulla militanza nazista di Sommerlath erano circolate pubblicamente nel Paese.

Secondo il rapporto diffuso oggi, l'uomo, emigrato in Brasile nel 1920, aveva aderito nel 1934 alla sezione di San Paolo del partito nazional-socialista tedesco, nel quale non aveva però ricoperto ruoli attivi. Quanto all'industriale ebreo, il rapporto sostiene che tra i due c'era stato uno scambio di proprietà che aveva permesso a questi di fuggire in extremis dalla Germania nazista.

L'associazione tedesca dei sopravvissuti all'Olocausto e dei loro discendenti ha definito «non indipendente» e «privo di credibilità» il documento, teso, a loro parere, ad "assolvere" il padre della regina.

Si finge neonazista per smascherare chi sterminò la sua famiglia

E' la storia di uno storico ebreo che si è finto un simpatizzante nazista per acciuffare l'aguzzino che durante la Shoa sterminò la sua famiglia.



Mark Gould è un broker 43enne di Los Angeles che per quattro anni ha vissuto in Germania fingendosi un nostalgico nazista ed entrando in contatto con l'uomo che - secondo lui - il 28 luglio del 1941 ha ordinato l'uccisione di massa degli ebrei al confine tra Ucraina e Bielorussia, tra cui 28 suoi familiari. Così Gould-storico improvvisato ha smascherato Bernhard Frank, un colonnello delle Ss, ultimo comandante dell'Obersalzberg, la residenza di Hitler sulle Alpi bavaresi, e braccio destro di Heinrich Himmler. Smascherare per modo di dire, perché Frank, oggi 97 anni, non è mai stato incriminato e vive tranquillamente a Francoforte sul Meno. Gould lo accusa di avere preso parte allo sterminio degli ebrei e sostiene che la sua firma si trova in calce all'ordine del capo delle SS Himmler di uccidere gli ebrei, tra cui i suoi familiari, datato appunto 28 luglio 1941. Gould ha riconosciuto quella firma quando - dopo essere entrato in confidenza con l'ex nazista - Frank gli ha scritto una lettera. E qui l'americano di origini ebree - che ha raccontato la sua incredibile storia al tabloid tedesco Bild - si rivela e cita all'ex nazista i nomi dei suoi familiari uccisi. "Sei un mio amico o un mio nemico", gli chiede Frank. "Un tuo nemico", risponde Gould, "hai ucciso la mia famiglia". L'americano ha poi depositato una denuncia negli Stati Uniti nei confronti di Frank, per le sue responsabilità nell'Olocausto, e ora è pronto a girare un film sulla vicenda.

C'è tuttavia chi crede poco a questa storia, come Ephraim Zuroff del Centro Wiesenthal, istituto che dà la caccia ai nazisti, secondo il quale Gould si è fatto pubblicità, perché ha in programma la pubblicazione di un libro e l'uscita di un film. L'americano ha infatti ripreso molte scene e registrato parecchie conversazioni con il presunto assassino dei suoi familiari. Strano infatti che Frank, noto in Germania ai procuratori e autore di un'autobiografia cinque anni fa, non compaia nella lista dei nazisti più ricercati del Centro Wiesenthal. Secondo altri detrattori Gould non è ebreo: è un ex mercante di oggetti nazisti e i parenti sterminati possono avere avuto delle relazioni con l'uomo che sua madre ha sposato successivamente.

giovedì 24 novembre 2011

All'asta il gioco disegnato nel bunker

Chiusi nel laboratorio-bunker, sotto il rischio di un bombardamento, per evitare nuove stragi. Ventiquattro ore su ventiquattro, senza uscire per non svelare segreti o per non essere sottratti al dovere. Persino per non lasciare spazio a fughe. Così scienziati e soldati semplici dovevano arragiarsi. Giocare a carte o leggere un romanzo, alla lunga, poteva sembrare ripetitivo. Così, qualcuno disegnò su un grande foglio bianco il tavolo da gioco del già celebre Monopoly (vedi qui sotto la foto del disegno).


Già, l'immortale Monopoly per non farsi travolgere dalla noia. E questo foglio, ora, è finito all'asta. Lo aveva disegnato Alan Turing, formidabile matematico inglese, abilissimo crittoanalista, consi-derato senza paure uno dei padri dell’informatica. L'opera ludica di Turing è stata vergata durante la Seconda Guerra mondiale, nelle lunghe pre passate senza poter uscire a Bletchley Park: insieme ad altre teste geniali, doveva decifrare codici e messaggi del nemico.

La fuga dell'inventore delle camere a gas protetta dalla Rft


Durante il cancellierato di Konrad Adenauer, la Repubblica federale tedesca ha ingaggiato e protetto tramite i suoi servizi segreti esteri (Bnd) l'ex Ss Walther Rauff, figura chiave della shoah. Lo confermano alcuni documenti a cui è stato tolto il segreto di Stato la scorsa settimana, nel quadro di un programma di elaborazione del passato avviato da Ernst Uhrlau, attuale capo del Bnd. Il Bnd, che era a conoscenza del curriculum di Rauff, lo contattò nel 1958 tramite un altro ex nazista, il cui lavoro era consigliare nuovi agenti. Nonostante dal 1961 fosse ufficialmente ricercato per concorso nell'omicidio di 90mila persone, nel 1962 il Bnd ha addestrato per alcuni mesi Rauff nella sua centrale di Pullach, in Germania, per poi spedirlo in Sudamerica a raccogliere informazioni su Cuba.

Rauff, racconta il settimanale Spiegel, era stato a capo del gruppo che nel 1941 aveva ideato le `camere a gas mobili´, costruite su dei camion. Anche in Italia l'ex Ss commise altri gravi crimini alla guida di un'unità incaricata di combattere i partigiani.

Rauff ha continuato a lavorare per i servizi fino al 1962, quando è stato arrestato dalla polizia cilena a Punta Arenas, una delle città più a sud del mondo. L'ex Ss, che si riteneva innocente e aveva deciso di non scappare, era stato messo in guardia dai servizi, che per comprarsi il suo silenzio gli garantirono anche la copertura di parte delle spese legali. Dopo pochi mesi Rauff era stato rilasciato per prescrizione della pena e ha vissuto indisturbato il resto della sua vita a Santiago del Cile, dove è morto nel 1984 a 77 anni.