lunedì 28 febbraio 2011

Le donne durante l’Olocausto — Immagini

Un gruppo di prigioniere, nella cava del campo di concentramento di Plaszow.



 
 
 
 
 
 
 
   
I corpi di donne ebree riesumati da una fossa comune vicino a Volary. Le vittime erano morte alla fine di una marcia forzata da Helmbrechts, un sottocampo di Flossenbürg. Volary, Cecoslovacchia, 11 marzo 1945
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sotto la supervisione di medici americani, alcuni civili tedeschi sfilano davanti ai cadaveri di donne ebree riesumate da una fossa comune a Volary. Le vittime erano morte alla fine di una marcia forzata partita da Helmbrechts, un sottocampo di Flossenbürg. Volary, Cecoslovacchia, 11 maggio 1945
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
Civili tedeschi di Volary partecipano alla sepoltura delle donne ebree riesumate da una fossa comune scoperta all'interno della città. Le vittime erano morte durante la marcia forzata da Helmbrechts, un sottocampo di Flossenbürg. Volary, Cecoslovacchia, 11 maggio 1945


 
 
 
 
Gertruda Babilinska con Michael Stolovitzky, un ragazzo ebreo da lei nascosto. Yad Vashem l'ha riconosciuta "Giusta tra le Nazioni". Vilnius 1943
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
Hermine Orsi ospitò in casa sua molti Ebrei e ne aiutò altri a trovare un rifugio a Le Chambon-sur-Lignon. Yad Vashem l'ha dichiarata "Giusta fra le Nazioni". Marsiglia, Francia, 1940
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
I figli di una famiglia ebrea; una delle sorelle raffigurate in questa fotografia, insieme ad altri membri della famiglia, non sopravvisse all'Olocausto. Nove Zamky, Cecoslovacchia, maggio 1944
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Una famiglia ebrea nel ghetto di Piotrkow Trybunalski. Tutti morirono nell'Olocausto. Polonia 1940
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Due cuginette riprese subito prima di venir fatte fuggire dal ghetto di Kovno. Una famiglia lituana nascose entrambe le bambine, che sopravvissero così alla guerra. Kovno, Lituania, agosto 1943
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Una donna siede in un parco, nascondendosi il viso; sulla panchina si legge la scritta: "Solo per Ebrei". Austria, marzo 1938 circa
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Simone Schloss, cittadina ebrea e membro della Resistenza francese, fotografata subito dopo la condanna a morte da parte di un tribunale militare tedesco, a Parigi. Simone venne giustiziata il 2 luglio 1942. Parigi, Francia, 14 aprile 1942
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Haviva Reik, Ebrea paracadutista, fotografata prima della sua missione in aiuto degli Ebrei intrappolati durante la rivolta nazionale slovacca. Palestina, prima del settembre 1944



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hannah Szenes nel giardino di casa sua a Budapest prima di trasferirsi in Palestina, dove sarebbe diventata paracadutista e avrebbe compiuto numerose missioni di salvataggio. Budapest, Ungheria, prima del 1939
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La paracadutista ebrea Hannah Szenes con suo fratello, prima di partire per una missione di salvataggio. Palestina, marzo 1944
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hildegard Kusserow, Testimone di Geova, fu detenuta per quattro anni in diversi campi di concentramento, incluso quello di Ravensbrueck. Germania, data incerta





 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
Haika Grosman fu tra gli organizzatori della Resistenza nel ghetto di Bialystok, nonché tra i participanti alla rivolta svoltasi nel ghetto stesso. Polonia 1945
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Le donne durante l’Olocausto


Vittime della persecuzione e dello sterminio nazisti furono sia gli uomini che le donne di etnia ebraica. Tuttavia, le donne - sia ebree che non-ebree - furono spesso soggette ad una persecuzione eccezionalmente brutale da parte del regime. L'ideologia nazista prese di mira anche le donne Rom (Zingare), quelle di nazionalità polacca e quelle che avevano difetti fisici o mentali e che vivevano negli istituti.

Interi campi, così come speciali aree all’interno di altri campi di concentramento, furono destinati specificatamente alle donne. Nel maggio del 1939, i Nazisti aprirono il più grande campo di concentramento esclusivamente femminile, quello di Ravensbrück, dove più di 100.000 donne vi furono incarcerate tra la sua apertura e il momento in cui le truppe sovietiche lo liberarono, nel 1945. Un campo femminile fu costituito anche ad Auschwitz-Birkenau nel 1942 (conosciuto anche come Auschwitz II), per incarcerare principalmente le donne; tra le prime ad esservi rinchiuse furono proprio prigioniere provenienti da Ravensbrück. Analogamente, una zona femminile venne creata a Bergen-Belsen nel 1944, dove le SS trasferirono migliaia di prigioniere ebree provenienti da Ravensbrück e Auschwitz.

Né le donne né i bambini, ebrei come non-ebrei, vennero risparmiati dalle uccisioni di massa condotte dai Nazisti e dai loro collaboratori. L'ideologia nazista sosteneva la necessità di eliminare tutti gli Ebrei, senza differenza di età o di genere. Le SS tedesche, insieme alle autorità di polizia, si occuparono di mettere in pratica quella politica, chiamata in codice "Soluzione Finale", fucilando in massa uomini e donne in centinaia di località dell'Unione Sovietica occupata. Durante le deportazioni, le donne in stato di gravidanza e le madri di bambini piccoli venivano generalmente catalogate come "inabili al lavoro" e venivano perciò trasferite nei campi di sterminio, dove gli addetti alla selezione le inserivano quasi sempre nei gruppi di prigionieri destinati a morire subito alle camere a gas.

Le donne ebree ortodosse accompagnate dai bambini erano particolarmente vulnerabili, siccome vestivano abiti tradizionali che le rendevano facilmente individuabili, anche durante le crudeli violenze dei pogrom. Inoltre, il gran numero di bambini che generalmente caratterizzava quelle famiglie ortodosse, rese le loro donne uno degli obiettivi principali dell'ideologia nazista.

Donne non appartenenti alla popolazione ebraica erano però altrettanto vulnerabili: i Nazisti condussero infatti operazioni di assassinio di massa di donne Rom anche nel campo di concentramento di Auschwitz; uccisero donne disabili nel corso delle operazioni denominate T-4 ed "Eutanasia"; infine, tra il 1943 e il 1944, in molti villaggi dell'Unione Sovietica, massacrarono donne e uomini considerati appartenenti a unità partigiane.

Nei ghetti, così come nei campi di concentramento, i Nazisti selezionavano le donne per inviarle a lavori forzati che spesso ne causavano la morte. Inoltre, i medici e ricercatori nazisti spesso usarono donne ebree e Rom per esperimenti sulla sterilizzazione e per altre pratiche disumane di ricerca, contrarie a qualunque etica. Sia nei campi che nei ghetti, le donne erano particolarmente vulnerabili e soggette spesso sia a pestaggi che a stupri. Le donne ebree in gravidanza cercavano di nascondere il loro stato per non essere costrette ad abortire. Anche le donne deportate dalla Polonia e dall'Unione Sovietica per essere impiegate nei lavori forzati per il Reich, venivano spesso picchiate e violentate, o forzate a prestazioni sessuali in cambio di cibo o altri generi di conforto. La gravidanza fu l'ovvia conseguenza per molte donne polacche, sovietiche e yugoslave inviate ai lavori forzati e costrette a relazioni sessuali con i Tedeschi. Se i cosiddetti "esperti della razza" determinavano che il bambino non potesse essere "germanizzato", le donne venivano generalmente obbligate ad abortire, o mandate a partorire in ospedali improvvisati, dove le condizioni avrebbero garantito la morte dei nascituri. Altre volte, invece, venivano semplicemente rispedite nelle regioni d'origine, senza cibo né assistenza medica.

Molte donne incarcerate nei campi di concentramento crearono gruppi di mutua assistenza che permettevano loro di sopravvivere grazie allo scambio di informazioni, di cibo e di vestiario. Spesso le donne appartenenti a questi gruppi provenivano dalla stessa città o dalla stessa provincia, avevano lo stesso livello di istruzione o condividevano legami familiari. Infine, altre donne furono in grado di salvarsi perché le SS le trasferirono nei reparti destinati al rammendo degli abiti, nelle cucine, nelle lavanderie o nei servizi di pulizia.

Le donne ebbero anche un ruolo importante in numerose operazioni della Resistenza, specialmente quelle appartenenti ai movimenti giovanili socialisti, comunisti e sionisti. In Polonia, le donne vennero impiegate come corrieri per portare informazioni nei ghetti; molte altre scapparono nei boschi della Polonia orientale e dell'Unione Sovietica, dove si unirono alle unità partigiane. Un ruolo importante assunsero anche molte appartenenti alla Resistenza francese (e ebraico-francese): Sophie Scholl, studentessa all'Università di Monaco di Baviera e membro dell'unità della Resistenza chiamata "Rosa Bianca", venne arrestata e fucilata nel 1943 per aver distribuito volantini contro il Nazismo.

Alcune donne, come Haika Grosman, di Bialistok, furono leader o membri di organizzazioni della Resistenza nei campi di concentramento. Ad Auschwitz, cinque donne assegnate al reparto di Vistola per la lavorazione del metallo - Ella Gartner, Regina Safir, Estera Wajsblum, Roza Robota e, forse, Fejga Segal - fornirono la polvere da sparo con la quale membri di un'Unità Speciale Ebraica fecero saltare in aria una camera a gas, uccidendo molte guardie delle SS, nel corso della rivolta dell’ottobre 1944.

Numerose donne furono anche attive nelle operazioni che vennero organizzate nell’Europa occupata per mettere in salvo gli Ebrei. Tra di loro ci furono la paracadutista ebrea Hannah Szenes e l'attivista sionista Gisi Fleischmann. Hannah Szenes fu paracadutata in Ungheria nel 1944, mentre Gisi Fleischmann, leader del Gruppo d’Azione (Pracovna Skupina) facente capo al Consiglio Ebraico di Bratislava, tentò di fermare le deportazioni degli Ebrei dalla Slovacchia.

Milioni di donne furono perseguitate e uccise durante l’Olocausto. Tuttavia, alla fine non fu tanto la loro appartenenza al genere femminile a farne dei bersagli, quanto il loro credo politico o religioso, oppure il posto da loro occupato nella gerarchia razzista teorizzata dal Nazismo.

ERMANDO PARETE

"Ero l'uomo-numero 142192".

I ricordi dell'internato Ermando Parete.

"Sono sfuggito ai forni crematori solo perchè quel giorno gli aguzzini erano stanchi: avevano già bruciato troppi corpi". L'inferno di Dachau è sempre vivo nel cuore di Ermando Parete, superstite del campo di sterminio della Germania nazista...'Io- rip...ete ossessivamente l'ex sottufficiale della Guardia di Finanza ( che oggi ha 83 anni e vive a Pescara) originario di Abbateggio,nel pescarese- sono vivo perchè ho resistito'...Ha resistito anche alla paura di morire 'legato ad un palo, al freddo, con le braccia dietro la schiena e i polsi appesi..'...'Mi picchiavano selvaggiamente , con la testa e le caviglie infilate tra le gambe di due soldati, il ventre appoggiato su un tavolaccio di legno..contavo in tedesco le frustate fino allo sfinimento e, se sbagliavo, loro ricominciavano daccapo. Dalle infermerie, dove qualcuno chiedeva di entrare per curare le ferite, non tornò mai nessuno..'. Parete è rimasto internato a Dachau dal settembre 1943 fino alle ore 18 (l'ex deportato abruzzese ricorda perfettamente l'ora) del 29 aprile 1945 quando gli americani aprirono i cancelli.'Eravamo affamati, ci diedero da mangiare delle fave...io pesavo 29 chili..'. Per oltre un mese rimasero fuori i cancelli, in attesa della restituzione della vita.'Eravamo liberi di fatto, ma ancora prigionieri. Non volevamo restare ma non potevamo andar via'. In quel lungo, estenuante, lasso di tempo 'che ci separava dalla vera libertà, facemmo anche la conoscenza del futuro Papa Paolo VI'. Parete, infatti, racconta che in quei giorni Giovanni Battista Montini (all'epoca 'responsabile dell'organizzazione che portava soccorso e sollievo ai rifugiati politici') fece visita ai deportati di Dachau. Nel libro la raccolta dei telegrammi originali custoditi da Parete: quello inviato dalla Croce Rossa alla famiglia di Parete per comunicare che il congiunto 'è stato liberato. Saluti e auguri..' e quello firmato dallo stesso Papa Montini in cui annuncia le 'buone condizioni di salute' in cui versava Parete al momento della liberazione dal campo di sterminio di Dachau."Ero l'uomo-numero 142192"

I ricordi dell'internato Ermando PareteTra i 600.000 "Internati Militari Italiani" vi furono numerosissimi abruzzesi: non tutti ebbero la ventura di ritornare e raccontare le allucinanti esperienze vissute nei campi di lavoro nazisti. Tra i superstiti vi è un pescarese, Fernando Parete, la cui vicenda, ricostruita attraverso i suoi ricordi e il suo memoriale, è stata oggetto di una brillante tesi di laurea di Claudia Trafficante, dal titolo: "In quel mondo fuori dal mondo" - Da Pescara a Dachau: storia di Ermando Parete, discussa nell'anno accademico 2004-2005 presso l'Università degli Studi di Torino, facoltà di Lettere e Filosofia (ringraziamo l'autrice per l'autorizzazione ad utilizzare brani del suo lavoro).Non ancora maggiorenne, Ermando Parete nel 1942 si era arruolato nella Guardia di Finanza. Dopo il normale addestramento venne inviato a combattere in Jugoslavia: di quella esperienza Parete ricorda lo scarso equipaggiamento: "(…)hanno fatto la guerra, io c'avevo 72 pallottole, una volta sparate quelle… insomma era una cosa pazzesca".

L'armistizio dell'otto settembre 1943 colse i soldati in condizioni ormai di sbandamento generale: Parete e i suoi commilitoni vennero addirittura avvertiti del fatto non dagli ufficiali, ma da un pope ortodosso. Anche nell'undicesimo battaglione della Guardia di Finanza vi fu chi si dette alla macchia, chi tentò di tornare a casa, chi fece la scelta di continuare la guerra sotto la Repubblica Sociale Italiana o nella Resistenza: Ermando Parete si unì ai partigiani jugoslavi, con l'intento di attraversare il confine e tornare a casa.A Cimadolmo venne catturato dai repubblichini, che gli proposero di passare nelle loro file, ma egli rifiutò perché:"mi sono sempre mantenuto fedele al giuramento della Guardia di Finanza"la stessa fedeltà al Regio Esercito e al re che onorarono migliaia di altri soldati italiani". Dopo questo rifiuto Parete venne inviato a Dachau (il lager nei pressi di Monaco di Baviera) chiuso in un vagone, senza possibilità di riposarsi, nutrirsi, respirare: come bestie, sempre in piedi. Il viaggio durò tre giorni e tre notti.Arrivati al campo, i nostri connazionali subirono immediatamente le persecuzioni dei nazisti, che li consideravano alla stregua degli ebrei, quindi degli esseri inferiori anche rispetto ai russi. Il trattamento non era migliore nemmeno da parte degli altri internati, prigionieri di guerra o resistenti che fossero: essi chiamavano gli italiani "fascisti - macaroni", umiliandoli, insultandoli, picchiandoli. Parete ed altri vennero destinati a riparare la ferrovia, o a togliere le macerie, o a scavare: "L'importante era stancarti". Da subito maturò l'idea di conservare quei ricordi perché:"Se noi superstiti non diffondiamo la memoria di quello che è successo, a che scopo siamo rimasti là?".Appena ritornato a casa dopo la liberazione, egli rientrò nei ranghi della Guardia di Finanza e redasse un prezioso memoriale. Prezioso perché nella narrazione sono presenti anche le descrizioni del campo e del suo funzionamento: i passi del memoriale sono stati scritti con un timore comune ai superstiti: quello che "Nessuno potrà mai immaginare cosa avvenne dietro ai reticolati ad alta tensione".È da ricordare che Dachau non fu un campo di sterminio, anche se la mortalità era alta, a causa delle spaventose condizioni di vita, comuni in quei luoghi.I ricordi di quei giorni sono stati ossessivi, perché "poi la vita ha pensato a ridarci le gioie, ma siamo rimasti soprattutto quel numero. Io sono essenzialmente uomo-numero 142192 di Dachau".Come altri anche egli si è fatto cancellare quel tatuaggio (simbolo non di essere una persona, ma un "pezzo"), anche se non ha potuto cancellare i ricordi.L'essere con tatuato il numero 142192, con addosso un cencio zebrato, a cui era cucito un triangolo rosso con la scritta IT (italiano), subì, come tutti, le minacce, le violenze, le torture, fra adunate e colpi di frusta, in un inferno il cui motto era "passerai per il camino dei forni crematori". Più volte fu sull'orlo di morire, o di essere eliminato (venne sottoposto due volte ad esperimenti "scientifici", tra cui l'ibernazione), ma il destino non volle così.Finalmente, il 29 aprile 1945 i soldati della settima divisione americana entrarono a Dachau.

PIERO TERRACINA

Piero Terracina racconta il suo 27, giorno della liberazione.

ROMA - Il gelo, la neve, le verze gelate che non si riuscivano a staccare con le mani nude e ormai stanche. E non si lasciavano mangiare. Le ginocchia e i gomiti sulla terra per strisciare perché di camminare non si ha più la forza. Poi la liberazione che as...sunse le sembianze di un soldato russo vestito di bianco. E lui, Piero Terracina, ebreo romano, che aveva appena 16 anni e una famiglia sterminata nel campo della morte, è l'unico della sua baracca a gioire. "Il soldato mi fece cenno di rientrare - racconta Terracina, superstite e instancabile testimone all'Ansa - perché si sparava e poteva essere pericoloso. Ai miei compagni di sventura dissi: sono arrivati i russi, siamo liberi. Ma non vi fu alcuna reazione. Solo il silenzio. Ricordo che un mio amico ebreo si stava tamponando delle piaghe con la neve per alleviare un po' il dolore. Si fermò un attimo, mi guardò, e riprese la sua operazione. Nessuno disse nulla. E come potevano. Quando si vive in mezzo alla morte, perché i morti erano fuori e dentro le baracche, si viene annullati, ridotti a larve umane. E non si prova quasi più niente". Un altro, polacco, qualche ora dopo tirò fuori un libro di preghiere in ebraico."Come aveva fatto a nasconderlo? Da una parte lo ammiravo - ricorda Terracina - ma dall'altra ce l'avevo con lui perché se le Ss avessero trovato quel libro, qualcuno sarebbe morto". Da cinque giorni i tedeschi avevano abbandonato il campo, "il 22 fu l'ultima nostra marcia là dentro. Sentivamo l'eco inconfondibile dei katiusha che si avvicinavano - ricorda - Avevamo fame e sete. Con le Ss erano spariti anche il cibo e l'acqua. Io ero giovane, uno dei pochi che si reggeva in piedi, e ricordo che trovai un magazzino con del cibo che distribuii ai miei compagni. Faceva così freddo quell'anno. La coperta che avevamo gelava all'altezza della bocca. La neve poi, per trasformarla in acqua, dovevamo raccoglierla lontano dei cadaveri che ormai erano dovunque". Piero Terracina è uscito da Auschwitz a bordo di un camion dell'Armata russa, "ma non il 27. Rimanemmo nel campo per altre due settimane. Ci portarono da mangiare. Troppo. E molti di noi morirono perché non erano più abituati al cibo. Ci pesarono anche. Il 27 gennaio la bilancia segnava 42 chilogrammi. Una settimana dopo, a causa della dissenteria, ne pesavo 38". Tra i suoi lucidi ricordi ci sono anche le lacrime sui volti dei soldati russi: "Anche loro, che avevano combattuto una guerra, non avevano mai visto uomini e donne ridotte così. E piangevano per noi".

domenica 27 febbraio 2011

Una gioventù offesa. Ebrei genovesi ricordano

Una gioventù offesa. Ebrei genovesi ricordano è il titolo di un libro di memorie di autori vari curato da Chiara Bricarelli e pubblicato nel 1995 da Editrice La Giuntina, Firenze, in occasione del cinquantennale della fine della seconda guerra mondiale e in ricordo dell'Olocausto.





Storia

" Perché è successo? " (dalla testimonianza di Dora Venezia)
Come si evince dal titolo, il volume riporta le testimonianze di un gruppo di persone di fede ebraica, legate alla città di Genova per nascita o per esservi trasferite nell'infanzia al seguito della famiglia, che patirono le leggi razziali fasciste e la deportazione nel campo di concentramento di Fossoli e, poi, nei campi di concentramento nazisti.
Questi sopravvissuti facevano parte negli anni che vanno dal 1938, anno in cui entrarono in vigore le leggi razziali, al 1943, quando in conseguenza dell'armistizio di Cassibile dell'8 settembre si inasprì la repressione verso gli ebrei da parte dei miliziani della Repubblica Sociale Italiana, dell'associazione DELASEM presieduta da Lelio Vittorio Valobra, uno dei Giusti fra le nazioni.

Il libro
Il libro consta di una presentazione di Raimondo Ricci, presidente dell'Istituto Storico della Resistenza di Genova, e di una prefazione di Marta Vincenzi, all'epoca della prima pubblicazione del volume presidente dell'Amministrazione Provinciale di Genova. Chiara Bricarelli, curatrice del testo, spiega in una introduzione gli scopi del progetto storico-letterario che ha portato alla pubblicazione della raccolta - avvenuta fra il 1993 ed il 1994 - di memorie di genovesi appartenenti alla comunità ebraica sopravvissuti alla deportazione e all'Olocausto.
Per l'anagrafica dei componenti dei nuclei familiari sterminati ad Auschwitz e negli altri campi di concentramento nazisti che accompagna i singoli resoconti, il libro di Bricarelli è debitore rispetto a Il libro della memoria, di Liana Picciotto Fargion, pubblicato da Mursia a Milano nel 1991.
La somma delle vicende narrate è dovuta, in postfazione, a Luca Borzani, assessore comunale e ricercatore, che ricorda come fossero "note le unità militari e di polizia, italiane e tedesche, che assolsero il compito di scovare e catturare gli ebrei". In particolare, "la struttura operativa - a partire dall'Ufficio Ebrei delle SS insediato presso la Casa dello Studente - che resse con burocratica efficienza la caccia all'uomo", e i luoghi "del terrore come la IV Sezione delle carcerie di Marassi". La postfazione dà conto anche delle figure che si prodigarono in soccorso dei perseguitati, come quelle dei cardinale Pietro Boetto, del sacerdote don Francesco Repetto, del rabbino Pacifici e dell'avvocato Lelio Vittorio Valobra, costretto ad espatriare in Svizzera per sfuggire all'arresto.

La persecuzione della comunità ebraica a Genova e in Liguria
Secondo il censimento del 1938, anno di entrata in vigore delle leggi razziali, risultavano iscritti nei registri comunali 2.263 ebrei residenti, cui andavano aggiunti 350 ebrei stranieri provenienti dalla Germania e dall'Est europeo.

Molti dei racconti degli ebrei e delle ebree sopravvissuti alle persecuzioni nazifasciste partono dalle retate che vennero compiute a Genova nel novembre del 1943 in coincidenza con il consolidarsi dell'occupazione nazista e con l'apertura a Fossoli, vicino a Carpi, da parte della Repubblica Sociale Italiana di un campo di raccolta speciale per gli ebrei provenienti dai campi provinciali del territorio della RSI.
Nei primi giorni del mese vennero chiuse le sinagoghe nonché le sedi associative della Delegazione Assistenza Emigranti Ebrei (DELASEM) e con stratagemmi o con irruzioni dirette nelle case iniziarono gli arresti di ebrei che alloggiavano in diversi quartieri della città e prevalentemente nel centro storico. Nel solo giorno del 1º dicembre circa cento ebrei furono arrestati a Genova e in altre località della Liguria per essere concentrati nel carcere di Marassi prima di essere trasferiti su un carro merci a Milano ed essere poi deportati cinque giorni dopo ad Auschwitz.

In totale, fra il 1943 ed il 1945 furono arrestati a Genova e in Liguria, per essere deportati nella Germania nazista, 238 cittadini di religione ebraica (ma il numero potrebbe essere solo indicativo per difetto), dieci dei quali soltanto riuscirono a sopravvivere ai campi di concentramento e di sterminio. Fra le storie raccontate nel libro vi sono quelle di quattro di essi: Luciana Sacerdote, Gilberto Salmoni, Piera Sonnino e Dora Venezia.
A Genova, la 'bonifica razziale' fu particolarmente mirata verso l'università, da cui vennero espulsi sei docenti di ruolo, sei liberi docenti e otto assistenti; non furono risparmiate neppure le professioni, così come mutata risultò in seguito anche la toponomastica, con la cancellazione di via e di piazzetta degli Ebrei.

Le testimonianze


Le testimonianze sono precedute da un ricordo degli eventi dei primi di novembre 1943 di Pietro Dello Strologo, presidente della Comunità Ebraica di Genova.

Pupa Dello Strologo (alias Pupa Garribba), nata a Genova il 2 gennaio 1935.

Espatriata con i genitori in Svizzera, ha perso ad Auschwitz due zii e due cugini arrestati in Toscana e detenuti a Firenze prima di essere deportati in Germania. È impegnata come donna di cultura e scrittrice nel tramandare la memoria dell'Olocausto. Vive a Roma.



Elisa "Lilli" Della Pergola, nata a Genova il 26 giugno 1930.
Trascorse in clandestinità il periodo novembre 1943 - aprile 1945. Perse ad Auschwitz il padre Mario (che venne arrestato a Genova), il nonno Giuseppe e la sorella del nonno, Ester, entrambi arrestati a Firenze e deportati dapprima a Fossoli.

Bruno Colombo, nato a Torino il 4 novembre 1924.
Figlio di un rappresentante di tessuti trasferitosi a Genova, riparò in Val Fontanabuona, dietro chiavari, ed aderì nel marzo del 1944 alla Resistenza entrando nelle formazioni partigiane guidate da Aldo Gastaldi detto "Bisagno". Mentre la famiglia trovò rifugio a Torre Pellice, egli compì numerose azioni sulle montagne genovesi entrando nella Genova liberata il 25 aprile. Rimase ferito sui gradini del palazzo dell'Università, a via Balbi. Ha perso ad Auschwitz una cugina di Torino, Vanda Maestro, arrestata a Brusson e deportata in Germania via Fossoli.

Gilberto Salmoni, nato a Genova il 15 giugno 1928.

Di famiglia agiata (il padre vicedirettore dell'Ispettorato Provinciale all'Agricoltura perse il posto in conseguenza delle leggi razziali), trovò riparo dapprima a Celle Ligure ma fu poi arrestato nell'aprile 1944 assieme ai suoi familiari dai repubblichini mentre cercava di espatriare a Bormio. Trasferito prima a Milano (dove fu mandato a lavorare alla Innocenti di Lambrate) e poi al campo di concentramento di Fossoli. Infine fu deportato ad Auschwitz, dove gli fu assegnato il numero di matricola n. 44573 e dove rimase fino alla fine della guerra; fece ritorno in Italia con altri profughi a estate inoltrata. Ha perso nel campo di concentramento tedesco i genitori e la sorella mentre un fratello, Renato (matricola n. 44529) sopravvisse alla detenzione nel campo di concentramento di Buchenwald.

Luciana Sacerdote, nata ad Alba (CN) l'8 maggio 1924.
Matricola n. 75192 nel campo di concentramento di Auschwitz, si era trasferita a Genova ancora bambina, con la famiglia che commerciava in tessuti e che aprì un negozio in via XX Settembre. Dopo l'armistizio la sua famiglia tentò di riparare in Svizzera con le famiglie parenti degli Dello Strologo e degli Ottolenghi. Il 18 dicembre 1943 furono però 'intercettati' alla frontiera sopra Varese da soldati tedeschi: appostati appena oltre la rete che segnava il confine, sembrava che ci stessero aspettando, ricorda Luciana Sacerdote che, deportata dapprima al carcere milanese di San Vittore, poi a Birkenau e quindi ad Auschwitz. Sopravvissuta al trasferimento a Ravensbruck e ad una marcia della morte, tornò in Italia a guerra finita, giungendo a Genova solo nel mese di settembre. Ha perso ad Auschwitz il padre Claudio e la madre Ernestina , la nonna materna e la sorella di questa. Nel medesimo campo è morto il suo fidanzato Mario Fubini mentre a Ravensbruck è morta sua sorella Laura. La madre del fidanzato morì dopo essere stata a sua volta detenuta a Varese e deportata nel carcere di San Vittore.

Piera Sonnino, nata a Portici (NA) l'11 febbraio 1922.
Di origini campane, verrà immatricolata in campo di concentramento con il numero A-26699. Sebbene la sua famiglia fosse iscritta alla Comunità Israelitica di Genova, non faceva vita di comunità, anche per le non floride condizioni economiche familiari. Sfollata in un primo tempo con la famiglia nel levante genovese, tornò insieme ai congiunti ad abitare a Genova nonostante l'alto rischio di arresto. Fu una spiata, i componenti della famiglia Sonnino Melani furono infatti arrestati e deportati, via Bolzano Ad Auschwitz-Birkenau. Sopravvisse a stento alla prigionia, rimanendo in gravi condizioni di salute fino al 1950, con frequenti ricoveri in ospedale. È stata l'unica sopravvissuto della sua famiglia dal campo di concentramento, dove ha perso padre, madre, due fratelli e due sorelle.

Dora Venezia, nata a Samsun (Turchia).
Matricola n. A-8501. La domanda del titolo del capitolo non è retorica ma è quella che Dora Venezia si pose per lungo tempo, una volta tornata dalla prigionia trascorsa nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, da cui rientrò dopo la liberazione e dopo un travagliato viaggio di ritorno che la portò in Cecoslovacchia, Ungheria, Austria. Ha perso ad Auschwitz il padre Elia, la madre Amalia Morais, una sorella ed un fratello, oltre alle due nonne, a tre zii e ad una cugina. Ha raccontato di aver ritrovato, tornata a Genova, una sorella, la casa, un lavoro ma di "non essere riuscita a ritrovare" se stessa.


Il campo di concentramento di Fossoli oggi. Da questo campo transitarono quasi tutti gli ebrei perseguitati di Genova prima di essere avviati ad Auschwitz

Simboli dei campi di concentramento nazisti

I Simboli dei campi di concentramento nazisti, principalmente triangoli, facevano parte del sistema di identificazione dei prigionieri. Questi simboli erano in stoffa ed erano cuciti sui vestiti. La loro forma e il loro colore avevano significati precisi.


Sistema di codifica dei contrassegni.
Il seguente sistema è basato su quello utilizzato nel campo di concentramento di Dachau, uno dei più elaborati.


Colore
Triangolo nero: Asociali
Triangolo verde: Criminali
Triangolo rosa: Omosessuali (uomini) o bisessuali
Triangolo blu: Immigranti (lavoratori forzati stranieri)
Triangolo viola: Testimoni di Geova
Triangolo rosso: Prigionieri politici


                                                                                            
Triangoli doppi.

Quando il triangolo veniva sovrapposto ad un triangolo invertito di colore giallo, indicava che il prigioniero era un ebreo, ad esempio un triangolo rosso sovrapposto ad un triangolo giallo indicava un prigioniero politico ebreo, oppure un triangolo giallo sovrapposto ad un triangolo rosa indicava un prigioniero omosessuale ebreo.
Un triangolo nero vuoto sovrapposto ad un triangolo giallo indicava un ariano che era stato accusato di violare le leggi naziste sulla purezza della razza, avendo una relazione con una donna ebrea. Il simbolo inverso, ovvero un triangolo giallo sovrapposto ad un triangolo nero indica una donna accusata dello stesso crimine.

Ebrei olandesi che indossano una stella gialla con la lettera "N" per "Niederländer" nel campo di concentramento di Buchenwald







 
 
 
 
Altri simboli.
Un piccolo cerchio nero circondato da un cerchio vuoto contrassegnava le persone assegnate ai battaglioni penali, mentre se il cerchio era rosso indicava un prigioniero che era sospettato di fuga. Le lettere utilizzate all'interno dei triangoli erano invece utilizzate per indicare il paese di origine:"B" (Belgier, Belga), "F" (Franzosen, Francese), "H" (Holländer, Olandese), "I" (Italiener, Italiano), "N" (Norweger, Norvegese), "P" (Polen, Polacco), "S" (Republikanische Spanier, Repubblica Spagnola) "T" (Tschechen, Ceco), "U" (Ungarn, Ungherese).

MEIN KAMPF

« E così io credo come sempre che il mio comportamento sia in accordo col volere dell’Onnipotente Creatore. Fin quando mi reggerò in piedi sarò contro il Judeo difendendo l’opera del Signore».

(Adolf Hitler nell'introduzione del Mein Kampf).

Mein Kampf (La mia battaglia) è un libro di Adolf Hitler in cui l'a...utore tratta il suo pensiero ed il programma politico del partito NSDAP, accompagnandolo ad un'autobiografia. Il Mein Kampf venne definito il catechismo della Gioventù hitleriana.Secondo più testimonianze,nella redazione del testo, ed in particolare nella correzione delle bozze, Hitler fu aiutato da un amico, il sacerdote cattolico Bernhard Stempfle, peraltro rimasto vittima della Notte dei lunghi coltelli.

PUBBLICAZIONE. Il programma politico di Hitler è stato composto da lui e Rudolf Hess nell'anno di reclusione (1924) a Landsberg am Lech dopo che lui aveva tentato un colpo di stato a Monaco, e successivamente - dopo esser stato liberato il dicembre dello stesso anno - sull'Obersalzberg.Il primo volume, intitolato Eine Abrechnung ("Una resa dei conti") è stato pubblicato il 18 luglio 1925; il secondo, Die nationalsozialistische Bewegung ("Il movimento nazional-socialista"), nel 1926. Il titolo originale scelto da Hitler era "Quattro anni e mezzo di lotta contro menzogna, stupidità e codardia". Essendo complesso, l'editore Max Amann decise di sintetizzarlo a Mein Kampf ("La mia lotta" o "La mia battaglia").Nel 1930 il libro costava 12 Reichsmark e veniva stampato nel formato 12 x 18,9 centimetri - quello normalmente adoperato per la Bibbia.Con i diritti d'autore Hitler acquistò il Berghof nelle Alpi Salisburghesi nel 1933.

Riassunto del libro. Caratterizzazione del tipico antisemitismo nazista (la razza ariana pura è superiore agli ebrei);

esortazione alla sconfitta e repulsione del marxismo. A tal proposito esalta l'esempio di Benito Mussolini, prendendolo a modello:« ... concepii profonda ammirazione per il grand'uomo a sud delle Alpi che, pieno di fervido amore per il suo popolo, non venne a patti col nemico interno dell'Italia ma volle annientarlo con ogni mezzo. Ciò che farà annoverare Mussolini fra i grandi di questa Terra è la decisione di non spartirsi l'Italia col marxismo ma di salvare dal marxismo, distruggendolo, la sua patria. A petto di lui, quanto appaiono meschini i nostri statisti tedeschi! E da quale nausea si è colti al vedere queste nullità osar criticare chi è mille volte più grande di loro! »

(Adolf Hitler, Mein Kampf, cap.XV. trad.: Andrea Irace)la creazione di un socialismo nazionale (lotta di razza invece di lotta di classe);

la lotta contro il bolscevismo;

lo stabilimento di più territorio nell'Est per nuovi spazi vitali che avrebbero realizzato il "destino storico" dei tedeschi;

l'alleanza con il Regno Unito col fine di evitare una seconda guerra a due fronti;

l'ulteriore polemica al parlamentarismo con la proposta di trasformarlo in un Führerstaat ("Stato del Führer", uno Stato fortemente autoritario guidato da un'unica persona, al di sotto di cui si svilupperebbe una competente gerarchia amministrativa);

il riassunto di tutto quanto nel programma del partito nazional-socialista dei lavoratori tedeschi (NSDAP).

Autobiografia e storia del partito fino al 1924.Adolf Hitler si rappresenta come "Übermensch", superuomo, riferendosi all'opera Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche, il quale aveva inteso con "superuomo" un uomo capace di essere superiore a sé stesso e ai propri impulsi. Tuttavia Nietzsche stesso era stato uno dei più grandi critici tedeschi contro l'antisemitismo che si sviluppava nel XIX secolo. Nel Mein Kampf è presente un diffusa enfasi sul Cristianesimo quale base ideologica della dottrina hitleriana; Hitler paragona l'ascesa del Nazismo a quella del Cristianesimo originale, e equipara sé stesso a Gesù nella sua opposizione alle istituzioni ebraiche.

"Se questo è un uomo" di Primo Levi



"Se questo è un uomo" di Primo Levi, interpretata da Dino Becagli su musica di sottofondo di John Williams, colonna sonora del film "Schindler's List".

HITLER ERA EBREO E NORDAFRICANO

L'analisi del Dna di Adolf Hitler, ottenuto da campioni di saliva di 39 parenti del Fuehrer, dimostra che il dittatore nazista aveva origini ebraiche e nordafricane. E' stato infatti rintracciato un cromosoma, Aplogruppo Eib1b1, raro tra gli occidentali, ma comune tra i berberi in Maroc...co, Algeria e Tunisia, e tra gli ebrei ashkenaziti e serfarditi. La ricerca è stata effettuata da un giornalista e uno storico belgi, Jean-Paul Mulders e Marc Vermeeren.

L' Aplogruppo Eib1b1 è legato al 10-20% del cromosoma Y degli ashkenaziti e tra l',8,6 e il 30% dei sefarditi. Già in passato era emerso che il padre di Hitler, Alois, fosse il figlio illegittimo di una cameriera di nome maria Schickelgruber e di un 19enne ebreo, noto come Frankenberger, ma in questo caso le prove non si basano su voci, bensì su rigorosi studi scientifici.

Secondo il Daily Telegraph che riporta la notizia, tutti gli esami sono stati eseguiti in laboratorio in condizioni particolarmente severe in modo da non poter inficiare in alcun modo i risultati, qualunque fossero stati. Uno specialista di genetica dell'Università Cattolica di Lovanio, Ronny Decorte, ha definito "sorprendente" lo studio realizzato da Mulders e Vermeeren "affascinante soprattutto se lo si confronta con la concezione del mondo dei nazisti, nel quale razza e sangue sono elementi fondamentali per stabilire l'appartenza alla razza ariana".

Mulders ha sintetizzato il risultato delle analisi in modo lapidario:"Si può dire chiaramente che Hitler era legato alle stesse persone che tanto disprezzava".

sabato 26 febbraio 2011

Perché Hitler odiava gli Ebrei?

Quattro passi nel delirio di una pseudoscienza: la sociopsicanalisi Hitler odiava gli Ebrei perché odiava suo padre e desiderava, e temeva al tempo stesso, di essere trattato da lui come una donna? Perché invidiava il suo pene e desiderava appropriarsene, per poter possedere il fantasma ...della madre?


Detta così, potrebbe sembrare una semplice battuta di spirito; e neanche tanto spiritosa, per dire la verità. Eppure, per i santoni della psicanalisi, la storia del mondo può essere spiegata precisamente in questo modo: non c'è guerra, rivoluzione o genocidio che non si possa spiegare, in misura determinante, con il complesso di Edipo e con le nevrosi pregenitali di questo o quel personaggio, con il suo timore della castrazione, con le sue pulsioni incestuose verso la madre, con la sua omosessualità latente, con il suo incoercibile bisogno di rivalsa, con i suoi sostituti fantasmatici dell'imago paterna quali oggetti da odiare, combattere e, possibilmente, distruggere. Insomma, tutto il classico armamentario della psicanalisi freudiana, con ipotesi e teorie, più o meno bizzarre, più o meno sforzate, a prendere bellamente il posto dei fatti e delle cose.

È chiaro che l'antisemitismo di Hitler non può non costituire un richiamo quasi irresistibile per i seguaci di una dottrina come la psicanalisi, che pretende di spiegare tutto sulla base di pulsioni inconfessabili, che lei sola ha la chiave per decifrare e portare alla luce del sole.

Il dittatore tedesco, infatti, si presenta come un caso paradigmatico di quella «rivolta contro il padre» che, per Freud, sarebbe all'origine della civiltà, ma anche della nevrosi; e, dato che Freud era ebreo, l'antisemitismo di Hitler si presta ad essere letto come una rivolta contro la rivolta, ossia come una reazione «difensiva» - s'intende, in senso schizoide - contro il padre opprimente e castratore, simboleggiato dalla razza giudaica.

Un supporto a tale interpretazione è dato dal fatto che Hitler, fino all'ultimo, sostenne che la sua lotta contro gli Ebrei era stata una lotta difensiva; che erano essi, e non lui, gli aggressori: tanto è vero che la «soluzione finale» vera e propria ebbe inizio solo dopo il fallimento della campagna invernale contro l'Unione Sovietica, culminato nella battaglia di Mosca del dicembre 1941, quando ogni risorsa umana e industriale avrebbe dovuto essere, semmai, concentrata nella guerra contro i nemici esterni e non contro una minoranza interna ormai inerme.

A tale scuola interpretativa appartiene Gérard Mendel (1930-2204), inventore niente di meno che di una nuova pretesa scienza: la sociopsicanalisi, che si propone, appunto, di interpretare e, in sostanza, di spiegare la storia, proprio sulle fondamenta del credo freudiano.

Forse anche per il trauma vissuto nella prima adolescenza, allorché - nel 1942 - i poliziotti francesi, che pure lo conoscevano bene, vennero ad arrestare suo padre, un ebreo - Mendel ha concentrato i suoi studi sul fenomeno dell'antisemitismo e ha mostrato di considerare quest'ultimo come una forma di delirio da castrazione e come una rivolta edipica nel più classico senso freudiano; senza accorgersi che le sue argomentazioni e la sua stessa impostazione - come, del resto, quella del suo maestro viennese - presenta essa stessa forti connotazioni deliranti, nella sua roboante ma inconsistente pretesa di scientificità.Ha scritto Gérard Mendel nel suo voluminoso saggio «La rivolta contro il padre» (titolo originale: «La révolte contre le père», Paris, Payot, 1968; traduzione italiana di Rosanna Pelà, Firenze, Vallecchi Editore, 1973, pp. 227-241 passim):«L’autore del “Mein Kampf” non è sempre stato antisemita:

“A Linz c’erano pochi ebrei. Nel corso dei secoli il loro aspetto si era europeizzato, si era fatto umano; li consideravo perfino come dei tedeschi. L’ingenuità di una simile opinione non mi appariva chiara, dacché fino allora io non vedevo la loro diversità che appunto nella loro diversa confessione. E che essi fossero stati perseguitati a cagione di questa, come lo credevo, faceva sì che provavo fastidio di fronte a espressioni offensive nei loro riguardi. […] Perciò il tono della stampa antisemita di Vienna mi pareva indegno della cultura di un grande popolo. Pesava su di me il ricordo di certe situazioni del Medio Evo, che non avrei voluto si rinnovassero al dì d’oggi.” [M. L., pp. 55-56].

È opportuno tuttavia rilevare la tonalità affettiva e quasi passionale che caratterizza fin d’ora l’opinione di Hitler sulla questione ebraica: le intenzioni antisemitiche lo riempiono di “fastidio”, gli “pesa” il ricordo delle persecuzioni medioevali.

Come abbiamo dimostrato, fin da giovanissimo Hitler era già colmo di intensa aggressività. Un carattere paranoico non nasce dal nulla. Si può pensare che queste pulsioni aggressive, per la loro stessa intensità, fossero sentite come pericolose, per il rischio che sfuggissero al controllo dell’Io. In questo periodo a Hitler fa orrore, dà ossessione, proprio la sua stessa aggressività, se non contro gli ebrei almeno contro certi oggetti. Aggressività contro chi? Tutti gli elementi permettono di arguire che essa - almeno su un piano inconscio – era diretta contro il padre, dato che il conflitto edipico con lui si era protratto in forma acuta ben oltre l’età abituale. A poto o dieci anni, capobanda di ragazzi indisciplinati, Hitler, marinando la scuola, si oppone al padre funzionario, difensore dell’ordine costituito […].

A quel tempo la lotta col padre non è ancora diventata aperta e violenta. Una certa sistemazione del conflitto edipico permette qualche possibilità di identificazione con l’immagine paterna.

In particolare il filosemitismo del giovane Hitler ci sembra uno di questi elementi di identificazione nella misura in cui il padre riprovava ogni antisemitismo. È d’altra parte interessante notare che quando la parola “ebreo” compare per la prima volta in “Mein Kampf”, è associata all’immagine paterna. […]

In un’epoca in cui la rivalità edipica è forte ma non ancora esasperata, il ragazzo di nome Adolfd Hitler ha potuto dunque identificarsi con suo padre su un certo numero di punti. Ma questa identificazione rimane precaria, minacciata dall’aggressività latente. La tonalità affettiva dell’opinione del figlio sulla questione ebraica (l’orrore per i propositi antisemiti, l’ossessione per le antiche persecuzioni) riflette l’imminenza delle pulsioni aggressive: tramite l’orrore e l’ossessione, che sono formazioni razionali, Hitler mobilita le difese contro un possibile rovesciamento della propria opinione. Anche su molti altri punti che riguardano l’identificazione col padre si è potuto produrre lo stesso fenomeno, ma evidentemente non ne è rimasta traccia. Hitler ha paura che l’odio verso il padre superi l’amore. I propositi formulati, che sono in contrasto con le idee di suo padre, risvegliano e rafforzano in lui l’odio contro il padre. Quando una cosa fa orrore oppure ossessiona, vuol dire che per essa c’è una forte attrazione, contro la quale l’Io si difende.

L’antisemitismo di Hitler si affermò nel corso della grande crisi interiore da lui attraversata al tempo della morte del padre, della malattia della madre, dell’insuccesso alle Belle Arti, ma in una maniera che gli sembra “penosa”:

“La più grave di siffatte evoluzioni fu naturalmente il cambiamento che subirono nel corso del tempo, le mie idee a proposito dell’antisemitismo.

Essa mi costò i più duri conflitti interiori: e fu solo dopo una lunga lotta tra ragione e sentimento che vinse in me il partito della ragione. Due anni più tardi anche il sentimento seguì la ragione, per diventarne da allora il guardiano più fedele. […]

E ritornavo al punto di partenza, per settimane, a volte per mesi.

La cosa mi sembrava così enorme, le accuse così smisurate, che io, tormentato dalla paura di commettere un’ingiustizia, tornavo pavido e malsicuro. […]

Era giunto così, per me, il tempo del mio grande rivolgimento, come non ne avevo ancora subito nel mio intimo.

Da placido cosmopolita, era divenuto un fanatico antisemita.

E una sola volta ancora, ma fu l’ultima, pensieri paurosi mi aduggiarono in un’atmosfera di profonda depressione.

Mentre studiavo l’attività del popolo ebraico in lunghi periodi della storia umana, mi si levò dentro la pavida domanda, se l’imperscrutabile destino non avesse deciso la vittoria finale di questo piccolo popolo; e ciò per motivi che sfuggivano a noi piccoli uomini.” [M. L., p. 69].

La risposta che Hitler si dà è che “la dottrina semita del marxismo rifiuta il principio aristocratico della natura, e pone al posto dell’eterno diritto della forza e della potenza il numero, col suo morto peso.”

Violando l’ordine della natura, la vittoria ebraica porterebbe alla scomparsa degli uomini dalla faccia della terra, perché

“L’eterna natura si vendica spietatamente di ogni trasgressione alle sue leggi”. [M.L., p. 70]

Questa lunga citazione mostra quanto divenisse cruciale per Hitler la questione ebraica, in una fase particolarmente critica della sua evoluzione psichica. Il lungo e tormentoso travaglio, di cui si parla nel brano citato, si spiega, a nostro avviso, con l’abbandono delle antiche posizioni nei confronti dell’immagine paterna e l’adozione di nuove difese. […]

Hitler si sente inconsciamente responsabile della morte improvvisa del padre, sopravvenuta nel pieno conflitto dichiarato fra padre e figlio, sorto a propositi della sua vocazione di pittore.

L’immagine del padre vendicatore viene interiorizzata.

La malattia e poi la morte della madre (che dopo la morte del padre era diventata l’alleata del figlio nel progetto di lui di fare il pittore) sono vissute come una vendetta sadica del padre.

Hitler viene a trovarsi allora alle prese con le immagini di un padre sadico e di una madre vendicatrice (vendicatrice nei confronti del figlio responsabile della sua morte),. La sua posizione è regressiva; egli ha di fronte i fantasmi più arcaici della madre divoratrice e distruttrice.

In questa situazione da suicidio, si scatena il seguente meccanismo difensivo: da una parte l’immagine materna pericolosa è investita nell’immagine paterna; il parziale disinvestimento dell’immagine materna sembra permettere un cambiamento di senso nell’aggressività materna, che non si dirige più contro il figlio, ma contro il padre. La madre vendicatrice ridiventa alleata del figlio nella lotta senza quartiere, e quasi senza speranza, contro il padre (che nella realtà per Hitler ha già avuto la meglio).

Castrare il padre, poi annientarlo; questo fine irraggiungibile formerà il nucleo delirante del sistema difensivo di Hitler: castrare e annientare il padre significherebbe negare la realtà, risuscitare la madre (ossia: risuscitare la razza ariana delle origini; mutare in vittoria la disfatta subita dalla madre-patria nel 1918; assicurare il trionfo della natura sulla razionalità umana.

Questa interpretazione ci sembra costantemente convalidata dal testo, nonché dal susseguirsi degli avvenimenti storici.

Vorremmo ora, per rafforzare le nostre argomentazioni, mostrare - verificare - sul testo ciò che traspare dell’immagine paterna nel fantasma hitleriano relativo all’ebreo.

Esaminiamo uno dopo l’altro gli elementi di questo fantasma:

1. L’ebreo è il “grande”, il padre, e Hitler – come la “razza ariana” con la quale egli si identifica - rimane il “piccolo”, il figlio.

Se infatti nel corso dei secoli la razza ariana ha operato mescolanze di sangue che l’hanno imbastardita - contaminazione che potrà essere riparata solo applicando rigorosi criteri di selezione - la “razza” ebraica ha mantenuto puro, invece, il proprio sangue:

“Ma la razza non consiste nella lingua, bensì nel sangue; cosa questa che nessuno sa meglio dell’ebreo, che se non accentua la conservazione del proprio linguaggio, si sforza in tutti i modi di preservare puro il proprio sangue”. [M. L., p. 339]

La semplice lettura di “Mein Kampf” mostra con chiarezza come, sotto le minacce e gli insulti rivolti da Hitler agli ebrei, si celi un sentimento che, per quanto paradossale possa apparire, è l’ammirazione:

“Dove è il popolo che negli ultimi 2.000 anni ha subito meno cambiamenti delle sue caratteristiche profonde, del suo carattere, e così via? Quale popolo è passato per più terribili vicende – e ne èè uscito sempre identico a se stesso? Quale ostinato e infinito esempio di volontà di vita e di conservazione della specie non sorge da simili fatti!

Le qualità intellettuali dell’ebreo sono venute mutandosi nel corso dei millenni.” [M. L., p. 326]

E ancora:

“Carlo Marx in realtà fu solo uno tra milioni che, nel pantano d’un mondo in putrefazione, riconobbe col sicuro sguardo del profeta i veleni essenziali, e li estrasse, per concentrarli, come un negromante, in una soluzione destinata ad annientare in fretta l’esistenza indipendente di libere nazioni sulla Terra.

Ma tutto ciò egli fece al servizio della sua razza.” [M. K., p. 15]

Sentimento di ammirazione che diventa facilmente comprensibile in base all’ipotesi che a quest’epoca (e fino alla sua morte) l’”ebreo” rappresenti per lui il padre. Anzi, proprio quel padre che - così sente Hitler - ha già vinto definitivamente la battaglia contro il figlio. L’ideologia hitleriana è una mera alternativa temporanea al suicidio, un tentativo delirante di negare ciò che lui, soggettivamente, ha vissuto, la vittoria su di un padre sadico sul figlio e sulla madre alleata del figlio, la vendetta del padre contro l’incesto simbolicamente consumato.

All’inizio - vale sa dire all’inizio della battaglia politica di Hitler - in questo delirio difensivo (diga per arginare il suicidio) l’ebreo è il “grande”, colui che avendo mantenuta pura la propria razza è rimasto forte, potente, e Hitler - la razza ariana - il “piccolo”, dal sangue contaminato. Ma, applicando norme rigorose, avrà luogo il combattimento decisivo, come tra due campioni, e alla fine l’ebreo sarà definitivamente eliminato.

“Senza saperlo, il mondo borghese era già inficiato dallo spirito letale del mondo marxista. […] Uno solo seppe combattere, durante tutti questi lunghi anni, con magnifica ostinazione: l’ebreo. La sua stella saliva all’orizzonte, quanto più calava la volontà di conservazione del nostro popolo.” [M- L., p. 356]

In questo fantasma difensivo, quando il figlio sarà cresciuto, portando le armi della madre - la svastica - s’opporrà in singolar tenzone a quest’altro campione, cresciuto assai prima di lui e che porta la stella di David: il padre.

“Con gli ebrei non c’è modo alcuno di patteggiare; ma soltanto un durissimo sì o no”. [M. L., p. 223]

2. Non solo l’ebreo è il “grande”, ma è - proiezione del conflitto edipico col padre - il rivale che s’incontra dovunque-

Egli è:

a. il seduttore della donna, ossia il rivale in rapporto alla madre (M-L., pp. 352-53);

b. il vero nemico durante la Grande Guerra (M. L., pp. 354-55);

c. il rivale in rapporto alle masse popolari (M. L., pp. 363);

d. colui che, come lo stesso Hitler, mira al dominio universale (M. L., p. 339);

e. infine è colui che, secondo Hitler, ha un posto importante in tutti i possibili campi di attività: arte (M. L., p. 62), stampa, parlamento (M. L., p. 343).

Chi esprime ammirazione per l’altro, chi esprime riconoscimento della potenza o della superiorità dell’altro, esprime anche il desiderio più o meno cosciente, più o meno gravato di senso di colpa, di diventare simile a lui, di identificarsi con lui. Questa identificazione è correlativa alla captazione fantasmatica, inconscia, del fallo dell’altro. Tale captazione aggressiva è possibile solo se la paura dell’altro - cioè il rapporto di aggressività verso di lui in un secondo tempo interiorizzato e mutato di segno, dato che l’aggredito diventa aggressore - non raggiunge un’intensità esagerata. Se invece è così, il fallo rubato diventa oggetto tossico, pericoloso, distruttore.

La battaglia che Hitler sostiene è una lotta contro il suo desiderio di identificarsi col padre, con l’ebreo. […]

La posizione è contemporaneamente pregenitale e edipica, insuperabile, invalicabile.

La “battaglia” che dà il titolo al libro (“Mein Kampf”) è una lotta contro questo desiderio di essere trattato da donna dal padre, dall’ebreo. L’annientamento del padre, dell’ebreo, equivarrebbe all’estinzione del desiderio… o perlomeno, finché la lotta prosegue, si conserva una particella di vita, il massiccio rimbalzo dell’aggressività sull’Io viene rinviato, viene differito il suicidio.

Un’immagine di cui lo stesso Hitler si serve conferma la sua posizione disperata e delirante nel tentativo di dare una soluzione finale al conflitto edipico (così che non ci sia più padre né ricordo interiore del padre, sotto forma di imago o di Super-io):

“Un malato di cancro, che in caso diverso è sicuro di morire, non ha bisogno del cinquantun per cento di probabilità di successo per osare un’operazione. Se questa promette la guarigione con solo mezzo per cento di probabilità, un uomo saggio la tenterà; in caso diverso non deve gemere perché muore.” [M. K., p. 60]

4. In questa lotta condotta in nome della vita contro la ragione, Hitler ha un fantasmatico alleato: la natura, la crudele, spietata, impassibile.

Conquistare le masse è possibile, poiché esse sono vissute da lui come una parte, ben poco autonoma, della natura:

“Le grandi masse sono in realtà un pezzo di natura” (M. L., p. 367). […]

La nostra tesi, secondo cui la battaglia di Hitler contro gli ebrei da lui perseguita adombra un’altra battaglia, quella contro il padre, ci pare solidamente fondata sugli argomenti da noi presentati. “L’ebreo - così come egli lo chiama costantemente, assommando milioni d’individui in una persona sola - era, nell’inconscio di Hitler, suo padre.»La citazione è piuttosto lunga, ma era necessaria per dare al lettore un'idea della metodologia e della prospettiva seguita da Mendel.

Dietro una patina di sapore accademico e una terminologia di tipo scientifico, si accavallano l'uno sull'altro castelli in aria, fatti di illazioni opinabili, di discutibili accostamenti, di deduzioni quanto mai azzardate e improbabili. Si dà per scontato praticamente tutto quel che sarebbe necessario dimostrare preliminarmente: dal complesso di castrazione a quello di Edipo, dall'odio verso il padre all'invidia del suo fallo: una montagna di concetti cervellotici, di elucubrazioni arrischiate, di labili supposizioni travestite da monolitiche certezze.

Ma seguiamo per ordine le argomentazioni di Mendel.

Egli si vanta di appoggiare le proprie deduzioni ai testi di Hitler medesimo: «Mein Kampf» e «Mein Leben»; però la lettura che ne fa è sistematicamente pregiudiziale, come di chi abbia deciso di trovarvi, fin dall'inizio, quei determinati contenuti e non altri.

Ad esempio, Mendel cita il passo de «La mia vita» in cui Hitler racconta dei suoi sentimenti giovanili verso la questione ebraica, sentimenti tutt'altro che ostili, anzi, ostili all'antisemitismo; e di come dovette lottare duramente contro se stesso per arrivare a convincersi della realtà del «complotto giudaico» e del fatto che gli Ebrei costituissero un reale pericolo per la Germania e per il resto del mondo.

Tuttavia, e pur ammettendo che Hitler «non è sempre stato un antisemita», Mendel non si cura nemmeno per un istante di valutare la possibilità che le parole di Hitler siano sincere, oppure che rispecchino un atteggiamento psicologico razionale, per quanto disdicevole o confutabile; per lui è scontato che le accuse rivolte agli Ebrei non solo da Hitler, ma da milioni di persone, in Germania e fuori, non avevano altra base che la malvagità pura, e, senza dubbio, un groviglio di complessi edipici irrisolti da parte di persone dall'infanzia infelice, caratterizzata da una presenza paterna opprimente.

Dopo aver osservato che «un carattere paranoico non nasce dal nulla» (di nuovo, postulando ciò che dovrebbe dimostrare), Mendel riconosce nell'uso di parole come «orrore» e «ossessione» del giovane Hitler, allora filosemita, le premesse del suo futuro antisemitismo, con l'argomentazione tipicamente psicanalitica che, quando si adoperano espressioni fortemente passionali, vuol dire che si è segretamente attirati da ciò che il Super-io respinge: in questo caso, le tesi e gli atteggiamenti degli antisemiti.

È quasi inutile ricordare, a questo proposito, la pertinente critica di Popper al marxismo, che qui è possibile trasferire alla psicanalisi: se l'Inconscio desidera sempre il contrario di ciò che vuole l'Io, e che il Super-Io giudica accettabile, e se tutto quello che da esso emerge può essergli rivolto contro come un guanto rovesciato, allora è impossibile falsificare la psicanalisi; il che è tipico dei sistemi antiscientifici.

Poi Mendel riporta un ricordo dell'adolescenza di Hitler, allorché marinava la scuola con alcuni compagni; e, naturalmente, ne fa una «prova» dei suoi sentimenti di ribellione e di odio represso contro il padre (che, si badi, era tollerante verso gli Ebrei e favorevole al cosmopolitismo). Se questa interpretazione fosse giusta, allora bisognerebbe dedurne che praticamente tutti gli esseri umani sono stati segnati dalla rivolta e dall'odio nei confronti del proprio padre, dato che è ben difficile trovarne qualcuno che non abbia mai marinato la scuola: e, in effetti, questa è proprio l'idea centrale di Freud, che l'ha spinta alle estreme conseguenze, oltrepassando del tutto l'ambito della psicologia e sostenendo che tutte le religioni nascono dal senso di colpa verso la figura del padre che si vorrebbe uccidere, anzi, che l'«orda primitiva» (altro concetto meramente mitologico) ha ucciso, per poi divinizzarlo.

Ma qui si sta parlando di Hitler: e Hitler, si sa, era un individuo capace di qualsiasi cosa; dunque, doveva essere un bambino, e poi un adolescente, carico di aggressività, addirittura con pulsioni suicide, che aspettavano solo il modo di incanalarsi verso un soggetto destinato a fungere da capro espiatorio. Ecco, allora, che il suo marinare la scuola si colora di sfumature particolarmente cupe e minacciose, come se già allora nella psiche del ragazzino austriaco fossero in incubazione i germi della tirannia e del più fanatico razzismo.

Il lettore si rassicuri: non stiamo cercando di svolgere la difesa d'ufficio di Hitler; lo storico non deve difendere o accusare nessuno. Lo storico deve sforzarsi di essere imparziale, e porsi in maniera aperta di fronte ai fatti o ai personaggi che studia: il suo scopo fondamentale è quello di comprendere, non quello di giudicare. In verità, anche lo psicanalista sostiene di voler fare la stessa cosa, ma con una forte componente di utilità pratica: il suo scopo è quello di aiutare il paziente a comprendere le proprie pulsioni rimosse o represse, e a ritrovare un equilibrio più autentico, dopo aver sconfitto i fantasmi dell'Inconscio che determinano la nevrosi.

Ma torniamo a noi.

Hitler racconta come, dopo un lungo periodo di agitazione interiore, che lo porta fino al limite della depressione, finisce per rendersi conto della realtà della minaccia giudaica per l'esistenza della Germania; e Mendel, immediatamente, trasferisce questo racconto in una trasfigurazione del conflitto edipico col padre, che egli odiava ma anche, segretamente, ammirava; così come, segretamente, ammirava la compattezza e la capacità di preservare il sangue puro da parte della razza ebraica.

A chi gli obiettasse che l'opposizione del padre al progetto di Hitler di iscriversi all'Accademia di Belle Arti e diventare un pittore, è un po' poco per fare di quel padre l'immagine di una presenza implacabile e minacciosa, responsabile perfino (sadicamente) della morte della madre, AVVENUTA DOPO LA SUA, un cultore ortodosso della psicanalisi risponderebbe, probabilmente, che le radici delle nevrosi dell'età adulta affondano su un terreno infantile quasi nascosto alla vista; salvo aggiungere che appunto loro, gli psicanalisti, possiedono la chiave segreta per accedere a quel regno nascosto, cosa che i comuni profani non potrebbero fare.

Ed eccoci giunti alla parte più significativa della disamina di Mendel circa le origini edipiche dell'antisemitismo di Hitler.

Dopo aver rilevato le esplicite espressioni di ammirazione hitleriana nei confronti delle capacità organizzative del popolo ebreo, Mendel prende in esame la convinzione di Hitler (allora largamente condivisa da milioni di Europei) che il marxismo altro non sia che il cavallo di Troia escogitato da un ebreo tedesco per distruggere la vita delle libere nazioni, mediante un distillato dei veleni di un mondo in putrefazione - quello borghese e liberale -, al servizio della razza ebraica.

Mediante la lotta di classe, trionfa il numero col suo morto peso su tutti i valori aristocratici: c'è bisogno di notare le assonanze di questa interpretazione del socialismo con quella di Nietzsche? Eppure Nietzsche non era antisemita. In altre parole, Mendel si astiene deliberatamente dal contestualizzare le idee di Hitler, le distacca dalla cultura e dalla società del suo tempo, per meglio mettere in scena - isolandola - la sua rappresentazione favorita, anzi, unica ed estremamente monotona: la lotta fantasmatica contro il padre come origine di tutti i mali della storia, nazismo compreso.

È interessante osservare che Mendel, in altra parte del suo libro, riconosce che Stalin è stato l'altro grande paranoico, la cui distorsione psichica ha causato danni immensi al genere umano; ma, forse a causa del fatto che Stalin non era antisemita, si limita a questo vago accenno, mentre dedica a Hitler ben quattro capitoli, per un totale di sessanta pagine. Di nuovo: dato che la psicanalisi è una dottrina di origine ebraica, e dato che Hitler ha rappresentato la punta più acuta e virulenta dell'antisemitismo moderno, chi meglio del dittatore tedesco si prestava per esemplificare, ad un tempo, l'origine schizoide, delirante dell'antisemitismo, e la cristallina esattezza dei metodi d'indagine psicanalitica, anche applicati alla storia dei popoli?

Dunque, per Hitler, l'«ebreo» (al singolare: altra conferma che si tratterebbe di un riflesso della odiata/amata immagine paterna) è divenuto «grande» perché ha conservato puri i caratteri della razza, cosa che dovrebbero fare anche gli altri popoli, a cominciare da quello tedesco, per non essere più «piccoli» - e, quindi, deboli - a causa della contaminazione del sangue.

Non solo: l'ebreo è l'eterno rivale per il possesso della donna/madre (quindi della «madrepatria»: gli psicanalisti amano moltissimo questi giochetti di parole); il responsabile della sconfitta del 1918; il rivale nel dominio delle masse (anche la massa è «femmina», quindi oggetto del desiderio sessuale); rivale nella volontà di dominio universale; rivale in quanto occupa posizioni chiave in tutti i principali settori dell'economia, della finanza e della cultura.

Qui, veramente, Mendel viene meno alla sua stessa metodologia, perché mescola insieme, in maniera indifferenziata, spiegazioni psicanalitiche e spiegazioni storiche dell'antisemitismo hitleriano (ma non solo hitleriano). Come si fa a mettere sullo stesso piano la figura dell'ebreo come rivale per il possesso della madre, e come responsabile della sconfitta del 1918? È chiaro che si tratta di due ordini di spiegazioni incommensurabili e che il loro accostamento, in una prospettiva unitaria, è quanto di più antiscientifico si possa immaginare.

E perché non dire niente di niente circa la presenza ebraica nelle posizioni chiave della società tedesca, fattore che - all'epoca - era percepito come anomalo, e potenzialmente pericoloso, da milioni e milioni di Tedeschi; presentandolo anzi, e di sfuggita, come uno dei tanti sintomi della sindrome schizoide di un solo individuo, Adolf Hitler? Perché le convinzioni del futuro dittatore in proposito possono ben essere state schizoidi, senza che per questo si debba far finta di non vedere che una questione del genere esisteva realmente, o era, comunque, vista in quei termini, da una larga maggioranza del popolo tedesco (e non solo tedesco).

Mendel sostiene che, nel giovane Hitler, dopo la morte del padre e della madre e dopo essere stato rifiutato dall'Accademia delle Belle Arti, il conflitto edipico aveva toccato punte parossistiche di angoscia e disperazione; e che egli avrebbe finito per suicidarsi, se non avesse trovato il modo di trasferire i suoi fantasmi nella realtà esterna, riversando sull'Ebreo/padre tutta la sua aggressività, la sua paura e il suo odio incontrollato. Anzi, si spinge anche più in là, e presenta la sua successiva azione politica come una sorta di suicidio differito, che sarebbe culminato - appunto - nel Bunker sotto la Cancelleria di Berlino, nella primavera del 1945.

Infine, Mendel sostiene che Hitler ha trovato un potente alleato al suo delirio antisemita nella concezione della natura come una entità spietata e invincibile, che nessuna scienza e nessuna tecnica potranno mai sottomettere; e che, darwinianamente, riserva la vittoria al più forte: cioè, nella prospettiva nazista, a chi è capace di preservare pura la propria razza.

Quest'ultima osservazione, a dire il vero, non si lega molto con il resto, perché potrebbe servire ugualmente a «spiegare» (nella particolare prospettiva psicanalitica) molti altri aspetti della concezione politica di Hitler; l'unico aggancio consiste nel fatto che, per Mendel, Hitler vede la natura come parte di quelle masse che vorrebbe dominare, ossia come un riflesso della madre che vorrebbe possedere incestuosamente.

Ma tant'è: perché non aggiungere anche questo agli tasselli che dovrebbero rendere ragione dell'odio di Hitler verso gli Ebrei? La malvagità di Hitler è così grande, che pochi fra gli studiosi che si sono occupati di lui, hanno saputo resistere alla tentazione di caricare ulteriormente il fardello delle sue colpe; un po' come fanno gli inquirenti che, dopo l'arresto di un serial-kiler, finiscono per attribuirgli anche il decimo delitto, non suo, aggiungendolo ai nove dei quali è stato dimostrato colpevole. Tanto, essi pensano, uno in più o in meno, che differenza può fare? Un uomo capace di assassinare crudelmente nove persone, può ben essere capace di ammazzare anche la decima. Peccato che questo modo di ragionare non abbia nulla a che fare con la icerca della verità, e meno ancora con la giustizia.

Concludendo, ci sembra che il modo proposto da Mendel per leggere la storia, la sociopsicanalisi, presenti tutte le aporie e le contraddizioni di quella forma di magia nera che è la psicanalisi; con l'aggravante che essa pretende di applicarsi non alla mente dei singoli, ma alle vicende di popoli interi.

Il risultato è un pasticcio presuntuoso e delirante, dove si parla della pulsione ad impadronirsi del fallo del padre, ammirato e odiato, come di una evidenza scientifica e non come di una mera ipotesi psicologica, tutta da dimostrare. Mendel sembra non accorgersi affatto di quanto certe sue frasi assumano un tono grottescamente serioso, nella loro circolarità autoreferenziale; come questa, ad esempio: «[la] identificazione [con il padre] è correlativa alla captazione fantasmatica, inconscia, del fallo dell’altro. Tale captazione aggressiva è possibile solo se la paura dell’altro - cioè il rapporto di aggressività verso di lui in un secondo tempo interiorizzato e mutato di segno, dato che l’aggredito diventa aggressore - non raggiunge un’intensità esagerata. Se invece è così, il fallo rubato diventa oggetto tossico, pericoloso, distruttore.»

Nemmeno Aristofane, nella sua satira dei sofisti svolta nella commedia «Le nuvole», sarebbe riuscito a fare una simile parodia di un sapere borioso e al tempo stesso fumoso; con la significativa differenza che, qui, ci troviamo di fronte ad una autoparodia involontaria.

Ci sembra che non sia questa la strada giusta per avvicinarsi al mistero di un'idea che ha avuto conseguenze storiche così funeste, come l'antisemitismo di Adolf Hitler.

Saremo tremendamente all'antica, ma siamo ancora dell'opinione che ciascuno dovrebbe fare il proprio mestiere, purché si sforzi di farlo bene: lo storico dovrebbe fare lo storico e soltanto lo storico; lo psicologo, dovrebbe occuparsi di psicologia.

Ciò non significa che lo storico debba negarsi ad un approccio interdisciplinare del proprio campo di studi; ma altro è la sinergia delle discipline affini in un dato campo di ricerca, altro è il pasticcio e lo scambio arbitrario dei ruoli.

Sono due cose profondamente diverse; anche se - ormai - è venuta di moda la più disinvolta confusione dei ruoli, a tutti i livelli della società e della cultura.