domenica 30 gennaio 2011

TRAMA. THE PIANIST

Varsavia, settembre 1939, Władysław Szpilman (Adrien Brody) sta eseguendo un notturno alla radio presso la quale lavora quando sente delle esplosioni che rapidamente si avvicinano, gli viene detto di smettere ma lui continua fino a quando una granata fa crollare la stanza accanto allo studio di registrazione: è ...l'inizio della seconda guerra mondiale, la Polonia è stata invasa e, nonostante il momentaneo entusiasmo per la dichiarazione di guerra alla Germania da parte di Francia e Gran Bretagna, Varsavia verrà occupata dopo pochi giorni[1].Immediatamente dopo l'occupazione da parte delle truppe tedesche vengono emanate una serie di restrizioni alla popolazione, restrizioni rese ancora più pesanti per la numerosa comunità ebraica come la limitazione del possesso di denaro, estromissione dal lavoro, divieto di accesso ai locali ed obbligo di indossare un bracciale bianco con la stella di David. Władysław, che vive con l'anziano padre (Frank Finlay), la madre (Maureen Lipman), il fratello Henryk (Ed Stoppard) e le due sorelle Regina (Julia Rayner) ed Halina (Jessica Kate Meyer), viene licenziato dalla radio di Varsavia e, dopo che la famiglia ha esaurito gli ultimi risparmi, è costretto a vendere il suo pianoforte prima di trasferirsi nel ghetto di Varsavia.

Foto del ponte costruito dai nazisti che collegava il ghetto piccolo con il ghetto grande, ricostruito fedelmente dal regista Roman Polański durante la lavorazione del filmUna volta trasferita nel ghetto la famiglia Szpilman inizia a vivere una realtà di miseria, di umiliazioni, di fame e di morte: Władysław assiste all'uccisione di un bambino che cerca di rientrare nel ghetto attraverso una breccia del muro dopo avere rubato del cibo, tutti insieme guardano impotenti le SS che entrano nel palazzo di fronte al loro sterminando una famiglia non prima di avere scaraventato dalla finestra un anziano in sedia a rotelle, mentre ogni giorno intorno a loro le persone cominciano a morire di stenti.Tutti cercano di sopravvivere: Władysław trova lavoro come pianista in un bar, Heynryk, dopo che lui ed il fratello hanno rifiutato l'invito ad arruolarsi nella polizia ebraica, cerca di vendere gli ultimi beni di cui la famiglia dispone mentre gli altri, grazie all'interessamento di alcuni amici che stanno cercando di organizzare una resistenza, vengono assunti in una sartoria ma il 15 marzo 1942 il regime nazista inizia le deportazioni di massa verso i campi di sterminio.

Tutta la famiglia, ad eccezione di Heynryk ed Halina, viene avviata alla deportazione ma anche loro, inconsapevoli del fatto che i treni sono diretti verso lo sterminio, si uniscono ai familiari per rimanere uniti, avviandosi in questo modo verso un viaggio senza ritorno ma Władysław, prima di salire sul treno, viene t...irato fuori dalla fila dallo stesso gendarme che gli aveva offerto l'arruolamento e che, su sua supplica, aveva in precedenza liberato Heynryk da un posto di polizia dove era stato rinchiuso.Władysław ora è solo e, grazie all'interessamento ed a volte alla corruzione dei pochi amici rimasti vivi, riesce a trovare lavoro come carpentiere ma il pericolo di essere uccisi è costante e contemporaneamente iniziano a circolare le voci sulla reale sorte degli ebrei trasferiti da Varsavia. I pochi rimasti vivi, sfruttando il permesso di uscire dal ghetto, riescono ad introdurvi delle armi e dopo che Władysław è stato fatto fuggire e rifugiare in una casa sicura da una vecchia amica (una cantante conosciuta in tempo di pace), inizia una rivolta.

 Foto raffigurante l'SS- und Polizeiführer Jürgen Stroop durante la distruzione del Ghetto di Varsavia, che il regista ha utilizzato per ricostruire la scenaCostretto ad abbandonare la casa a causa di una vicina che lo ha scoperto Władysław, disponendo di un indirizzo fornitogli dalla resistenza, ripara in casa di Dorota (Emilia Fox), una violoncellista che aveva conosciuto il giorno dello scoppio della guerra, che, grazie alle conoscenze del marito, riesce a trovargli un altro nascondiglio presso una abitazione nel settore tedesco; qui troverà conforto in un vecchio pianoforte che fingerà di suonare nelle lughe giornate vissute in solitudine mentre Andek (Andrew Tiernan), un uomo incaricato dal marito di Dorota di prendersi cura di lui, in realtà userà il suo nome solo per raccogliere soldi.Con l'approssimarsi delle truppe russe Varsavia insorge e Władysław, scampato miracolosamente alla distruzione della città, rientra in ciò che resta delle macerie del ghetto vagando solo, ed ormai allo stremo delle forze, alla ricerca di cibo. Trovato riparo in una soffitta in una delle poche case rimaste ancora in piedi scopre un barattolo di cetrioli ma, incapace di aprirlo, lo porta nel suo nascondiglio e nella notte sente delle note di pianoforte.Il giorno dopo, mentre cerca di aprire il barattolo con mezzi di fortuna, viene scoperto da un ufficiale tedesco (Thomas Kretschmann) che, venuto a conoscenza della sua antica professione, lo conduce in una stanza dove c'è un pianoforte e lo invita a suonare; Władysław lo accontenta e l'ufficiale, rimanendo colpito dalla sua esecuzione, decide di aiutarlo e per i mesi successivi lo nutrirà fino a quando i tedeschi, sotto la spinta dell'attacco russo, non abbandoneranno la città[9] ed in quel momento l'ufficiale si congeda da Władysław chiedendogli il suo nome ma senza dirgli il proprio.Una mattina Władysław sente della musica, esce dal nascondiglio e corre incontro ai soldati sovietici, rischiando di essere ucciso in quanto indossa ancora il pastrano regalatogli dall'ufficiale per ripararsi dal freddo, ma riesce a salvarsi mentre l'ufficiale viene catturato e portato in un campo in attesa di essere trasferito in Unione Sovietica; qui incontra un ex deportato polacco che sta facendo ritorno a casa e, dopo avergli riferito che ha aiutato Władysław durante l'ultimo periodo di occupazione, gli chiede di informarlo che lui si trova lì ma mentre dice il suo nome viene zittito da un soldato sovietico. Tempo dopo Władysław, che nel frattempo ha ripreso il suo posto alla radio di Varsavia, torna con l'amico nel luogo indicatogli ma il campo è stato smantellato e non vi è più traccia dei prigionieri tedeschi; solo dopo la sua morte si scoprirà che il nome dell'ufficiale era Wilm Hosenfeld.



Germania - Il campo di concentramento di Aushwitz

L'entrata principale del Campo di Concentramento di Auschwitz. Dove le persone venivano condotte per entrarvi e non uscire più!













Il Campo di Concentramento: un sito tetro e indecente! Una vergogna per l'Umanità!













Colonnine occupate dai nazisti, inserite nei lagher, per non far scappare "i non ariani" ! Ordine supremo: "Se scappano, c'è l'autorizzazione per la fucilazione!".










Il freddo di quel luogo non era dato tanto dal tempo, ma dal gelo del comportamento dei nazisti! Pezzi di ghiaccio difronte all'eccidio dei loro simili!




















La deportazione degli ebrei nei campi di concentramento fra i quali vi era quello di Auschwitz!












Forni crematori dove venivano immessi i corpi di quelle povere anime, per trasformarli in cenere e quindi in sapone...











Bambini innocenti nel campo di concentramento. Dove gli è stata tolta con violenza l'innocenza e la libertà di sognare!



Oggetti personali, sequestrati agli ebrei, per far arricchire il partito nazista di Hitler. Oltre alle cose materiali i nazisti gli hanno tolto la dignità, ma coloro che sopravvissero l'hanno riacquistata e si fecero forza per poter continuare a vivere per poter dire cosa fosse successo realmente: la loro verità!



Nazisti che camminano tra i corpi inermi degli ebrei. Senza una coscienza e senza remore!












Migliaia di vite spezzate!










L'orrore di quel luogo in cui gli ebrei venivano condotti, per non poter far più ritorno a casa!! Luogo di sofferenza e di umiliazione! E che ancora oggi andando a visitire quel luogo si sente nell'aria l'odore del male e il grido delle anime innocenti...


 
 
 
 
 
 
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sabato 29 gennaio 2011

Hitler arriva al potere

Il caos politico e il dramma dell'economia con più di 6 milioni di disoccupati fanno aumentare il desiderio di un uomo forte che possa mettere fine a tutto questo. Alla fine nel 1933 Hitler si presenta per molti come l'unica speranza che può salvare il paese dalla confusione totale.




Più che un u...omo politico, all'inizio Hitler era un oratore. Lo sapeva e lo sfruttava fino al massimo. Nel 1932, un anno prima di diventare Cancelliere del Reich, Hitler fa centinaia di discorsi in tutte le parti della Germania. Basta un annuncio anche solo 2 giorni prima e Hitler riempie qualsiasi sala. Affascina la gente non tanto per quello che dice ma per come lo dice. Con il suo stile insolito ma affascinante di parlare riesce ad ipnotizzare le masse.



Quello che convince la gente quando parla Hitler è soprattutto l'energia che riesce a trasmettere, un'energia e una fermezza di cui molta gente disorientata sente un gran bisogno e di cui anche la Germania depressa dalla crisi economica sembra che abbia bisogno.



I 17 milioni di tedeschi che votano Hitler nel 1933 non sono 17 milioni di fanatici antisemiti, razzisti e nazionalisti, ma in grandissima parte sono persone stanche ed esauste che vogliono lavoro, la fine della insicurezza politica e la garanzia di un modesto benessere, e che non vogliono più sentirsi gli ultimi in Europa. La violenta propaganda antisemita di Hitler per molti non conta, conta invece la promessa di creare lavoro e di mettere fine al caos di cui sembra responsabile la democrazia. E Hitler non lascia nessun dubbio sul fatto che vuole eliminare non solo tutti gli altri partiti ma con loro anche la democrazia stessa. Adesso la propaganda di Hitler e l'organizzazione quasi militare del suo partito raccolgono i frutti. Più aumenta il consenso elettorale, più anche i grandi industriali, che prima avevano visto in Hitler solo un fenomeno politico un po' esotico e volgare, si interessano di Hitler,. Nel gennaio del 1933, il partito nazionalsocialista era ormai da un anno quello più forte, Hitler diventa cancelliere e la storia della Germania cambia.



É evidente che non è stato Hitler a distruggere la democrazia di Weimar ma che è stata piuttosto la autodistruzione della democrazia a portare Hitler al potere. Fattori esterni hanno certamente favorito questo processo: all'inizio c'era il trattato di Versailles, pesante per l'economia, ma forse ancora più negativo in senso psicologico, in quanto umiliava la Germania e forniva gratuitamente continuo materiale per la propaganda di Hitler. Il colpo di grazia è stata, alla fine, la crisi economica con 6 milioni di disoccupati.



Decisiva per la autodistruzione della repubblica è stata però la quasi completa mancanza di senso democratico in ampi strati della destra (che andava molto oltre il partito di Hitler). La destra non-nazista rifiutava fin dall'inizio, più o meno apertamente la democrazia e cercava con tutti i mezzi a rovesciarla o a svuotarla di contenuto. Certamente anche i comunisti lottavano attivamente contro il sistema democratico, ma non erano mai un reale pericolo per lo stato, se mai erano un problema per la polizia.



Quando lo stato e l'economia erano, o almeno sembravano forti, Hitler non aveva la minima chance di ottenere consensi elettorali. Hitler poteva avere successo solo quando l'avversario, cioè la democrazia, era debole. Nella prima grande crisi del 1923 tentò un colpo di stato, ma fallì. Allora la Repubblica vacillò ma non crollò. Nel 1933 invece, quando la democrazia era già esausta e marcia, arrivò al potere senza sparare neanche un colpo.
 

Il giovane Hitler / La Prima Guerra Mondiale





Hitler nasce nel 1889 in un piccolo paese dell'Austria settentrionale. Lascia la scuola senza ottenere la licenza media, non ha lavoro, ma non lo cerca nemmeno perché sogna di diventare un artista. A 18 anni, dopo la morte della madre, si trasferisce a Vienna dove spera di... fare fortuna.

Li vuole iscriversi all'accademia d'arte ma viene respinto due volte. Conduce una vita da vagabondo, vive con la pensione da orfano e con la occasionale vendita dei propri disegni. A Vienna all'inizio del secolo l'opinione pubblica è molto politicizzata, dappertutto si parla di politica, e per Hitler che non ha altro da fare, la politica diventa subito il vero senso della vita. Fin dall'inizio l'interesse per la politica domina e non lascia spazio ad altro. Tutte le cose che possono dare calore e importanza a una persona, come il lavoro, l'amicizia, l'amore e la cultura, gli mancano quasi completamente. Legge molti giornali, ma si interessa soprattutto delle cose militari. Ogni tanto va all'opera ma gli piace solo Wagner con il suo misticismo pangermanico. Il suo paese invece, l'Austria non gli piace affatto, il ventenne sente che il grande impero austro-ungarico è ormai arrivato alla fine, sente che non ha più futuro. È invece molto attirato dalla Germania, che prima della Grande Guerra si presenta come una nazione giovane, forte, con molte energie e con un futuro da nazione di primo piano a livello europeo e mondiale. E già nel ventenne comincia a formarsi una ideologia che è un misto tra nazionalismo e antisemitismo, due tendenze molto di moda in quel momento, a Vienna ma anche in altri paesi.

La sua prima decisione importante è quella di emigrare in Germania nel 1913, un anno prima dello scoppio della grande guerra. Lo fa per sottrarsi al servizio militare austriaco, ma non perché è contrario alla guerra, anzi, Hitler vuole fare la guerra, ma con la Germania e non con l'Austria. Infatti, appena cominciata la guerra si arruola come volontario nell'esercito tedesco. Nella guerra, Hitler si sente finalmente a suo agio, ottiene una decorazione al valor militare, ma rimane un soldato semplice perché i suoi superiori non lo ritengono idoneo per comandare, a causa del suo spiccato individualismo. I suoi compagni lo ricorderanno come un tipo un po' strano, che spesso faceva discorsi politici molto radicali, ma anche un po' confusi.


La storia di Adolf Hitler


Adolf Hitler - tutti hanno sentito parlare di lui. Ma chi era veramente? E i tedeschi - cosa pensavano di lui? Arrivato al potere nel 1933 con regolari elezioni politiche Hitler fu alla fine colui che trascinò mezzo mondo nella più grande carneficina dell'umanità: la seconda guerra mondiale con 55 milioni di morti.


Per ...capire come questo era possibile bisogna ripercorrere la biografia di Hitler insieme alla storia della Repubblica di Weimar che vide la sua ascesa al potere.

In questa pagina potete leggere il testo integrale di una conferenza che darà le risposte alle vostre domande su Hitler, la sua ascesa, la Repubblica di Weimar e la seconda guerra mondiale.

La tragedia della Germania

Il 30 aprile del 1945 Hitler si suicida nel suo bunker a Berlino. In quel momento i soldati della armata rossa combattono già nelle strade di Berlino e americani, inglesi e russi hanno già occupato gran parte della Germania. Quando una settima più tardi la Germania firma la capitolazione incondizionata, il paese è ridotto a un campo di macerie.

Tre anni di continui bombardamenti, che miravano a spezzare il morale della popolazione, hanno totalmente distrutto le città tedesche fino a trasformarle in paesaggi lunari. Per avere una idea della vastità delle distruzioni solo alcune cifre: In 10 giorni, nel luglio del 1943, 3000 aerei scaricavano sopra Amburgo ca. 3 milioni di bombe incendiarie insieme a 25.000 bombe esplosive. In una unica notte a Francoforte sempre nel 1943 caddero 250.000 bombe incendiarie e 4.000 bombe esplosive. 131 città furono bombardate e il totale delle distruzioni a Berlino, Francoforte, Düsseldorf, Colonia, Dresda, Amburgo era tra il 40 e il 90 % di tutte le abitazioni. Per tre anni, gran parte della popolazione era stata costretta a vivere nei rifugi antiaerei e circa 600.000 persone vi morivano. Tra le macerie cominciarono a muoversi interminabili fiumi di profughi. Persone in fuga davanti all'avanzare dell'armata rossa, tedeschi cacciati dalle loro case e dalle loro terre. 12 milioni di profughi si trovavano per strada, tra un campo di accoglimento sovraffollato e l'altro. Tra il 1945 e il 1946, la guerra è già finita, nei treni o sulle strade muorirono così ancora 2 milioni di tedeschi, per la fame, per le fatiche o per malattie che nessuno poteva curare.

La tragedia della Germania alla fine della guerra era terribile. Ma le atrocità degli altri certamente non attenuano la responsabilità della Germania. Tutto questo era soltanto un riflesso di quello che il nazismo aveva fatto ai popoli dell'Europa, era soltanto l'ultimo atto di una guerra che Hitler aveva fortemente voluto, che aveva, fin dall'inizio della sua carriera politica, preparato prima ideologicamente e poi anche materialmente, di una guerra che nessun altro in Europa aveva voluto o cercato.
Hitler è stato al potere per soli 12 anni. 12 anni sono pochissimi per la storia, ma mai prima un periodo così breve aveva avuto un impatto così violento non solo su un paese, ma anche su un intero continente, anzi sulla storia mondiale. Tutta la storia di oggi è risultato della seconda guerra mondiale, e la seconda guerra mondiale è opera della Germania di Hitler e di nessun altro. Anche dopo più di 50 anni l’ombra di Hitler è ancora presente. Ma per imparare a non ripetere gli errori del passato bisogna prima capire perché Hitler era possibile.


giovedì 27 gennaio 2011

Le marce della morte.



"Kein Häftling darf lebendig in die Hände des Feindes fallen". Era il 14 aprile 1945 e Heinrich Himmler, capo supremo delle SS, ordinava che nessun prigioniero sarebbe dovuto cadere vivo in mani nemiche.
Negli ultimi mesi della Seconda Guerra mondiale, i prigionieri presenti nei campi di concentramento erano circa 714mila. Con l'arrivo degli anglo-americani da ovest e dell'Armata Rossa da est, tra l'aprile 1944 e la primavera 1945, moltissimi di questi prigionieri vennero costretti ad una nuova agonia: l'evacuazione dai campi e le cosiddette "marce della morte".
Centinaia di migliaia di detenuti, già stremati da mesi di privazioni, violenze e lavori forzati, venivano obbligati a marciare fino alle prime stazioni ferroviarie utili. Dopo un viaggio reso estenuante da ogni tipo di stenti, i prigionieri dovevano camminare ancora per chilometri per raggiungere i campi di raccolta. Quelli che non riuscivano a stare al passo o che tentavano di fuggire venivano trucidati dalle guardie di scorta.
Per la prima volta le marce della morte non sono più considerate come epilogo della vita dei campi di concentramento, ma come capitolo centrale della storia del genocidio nazista, iniziato nel 1941 e conclusosi con la fine della guerra, inteso nella sua prospettiva più ampia.
Daniel Blatman, docente all'Università ebraica di Gerusalemme, con alle spalle diversi lavori sulla storia degli ebrei, supera l'approccio assunto nei dibattiti processuali del dopoguerra, che si concentrano sull'aspetto amministrativo e burocratico, e quello di molta storiografia tra gli anni '60 e '90, che considera la fase dell'evacuazione soltanto come "l'ultimo atto omicida di matrice ideologica nel contesto della soluzione finale". Basti pensare solo al fatto che in questa fase le vittime non sono più identificabili con una precisa etnia, ad esempio gli ebrei, o con un gruppo religioso, ad esempio i testimoni di Geova.
Blatman ha consultato le indagini processuali condotte nella Repubblica Federale Tedesca e in Austria e le innumerevoli testimonianze di sopravvissuti, sparse negli archivi di tutto il mondo. Collocate nell'ampio contesto culturale, politico e militare in cui avvenne l'evacuazione, le marce dei prigionieri si intrecciano con la fuga dei civili profughi dall'Est, terrorizzati dall'avanzare dei sovietici, e con le vicende della popolazione tedesca, smarrita e confusa dinanzi al precipitare degli eventi. L'importanza dello studio consiste anche nella ricchezza e varietà degli episodi di microstoria, il più emblematico dei quali fu il massacro di Gardelegen, cittadina dell'Altmark, in Sassonia, nell'aprile 1945.
Con una scrittura agile, Blatman riesce egregiamente nel suo sforzo storico e narrativo ad indagare l'identità, l'emotività e le motivazioni di carnefici, vittime, liberatori, ma anche dei civili tedeschi, che la confusione degli ultimi mesi di guerra e la quotidianità carica di tensione trasformarono anche in occasionali carnefici.

GLI SCOMPARSI - DANIEL MENDELSOHN



Daniel Mendelsohn è un ebreo laico americano appartenente alla terza generazione di una famiglia di ebrei provenienti da Bolechow, (oggi Bolekhiv) ---- uno stethl dell'Europa orientale (Galizia) passato dall'impero austro ungarico ai polacchi, poi ai sovietici ed infine all'Ucraina --- riusciti ad emigrare negli Stati Uniti appena in tempo prima dell'inizio della Shoah.

Insegna greco antico a New York.

Proprio così: colui che si potrebbe immaginare ossessionato dall'Europa centrale lacerata nel corso dei secoli tra L'Austria-Ungheria, la Germania, la Polonia, l'Ucraina e la Russia, è in realtà un appassionato dell'antica Grecia, della mitologia, dei grandi classici latini e greci.

Lui stesso, in un'intervista, ha spiegato le ragioni di questo amore dicendo: "Io sono ebreo ed omosessuale. La componente ebrea, in me, è la componente della tradizione della famiglia, del dovere. La componente greca, pagana, è quella del desiderio e del piacere".

Articoli e saggi di Mendelsohn compaiono sul New Yorker, sul New York Times Book Review, sull' Esquire e Paris Review e in volumi antologici. Gli scomparsi non è il suo primo libro: prima di questo, nel 2001 aveva pubblicato The Elusive Embrace: Desire and the Riddle of Identity", che era stato premiato come libro dell'anno dal New York Times e dal Los Angeles Times.

Questo libro è il risultato della ricerca personale che Daniel Mendelsohn ha condotto per far luce sul destino di alcuni membri della sua famiglia scomparsi nell'Olocausto.

Com'è nato Gli scomparsi? Fin da bambino, Daniel Mendelsohn si appassiona alla storia della famiglia, ricostruisce l'intricatissimo albero genealogico, ascolta le storie che gli racconta il nonno: a poco a poco riesce a delineare il quadro dell'ascendenza familiare risalendo per tre o quattro generazioni. Ma si accorge che ci sono alcune persone di cui non si parla mai, a proposito delle quali il nonno, di solito tanto loquace e generoso di aneddoti di ogni genere, diventa improvvisamente muto: si tratta del prozio Schmiel (fratello del nonno) e della sua famiglia.

Di lui viene a sapere soltanto che non è riuscito ad arrivare in America, che è rimasto a Bolechlow con la moglie e le sue "quattro bellissime figlie" e che tutti loro sono stati "uccisi dai nazisti" nel 1941.

Ma quando, esattamente? E dove? E come? Ogni volta che Daniel formula queste domande, tutti i parenti tacciono. Dello zio Schmiel e della sua famiglia nessuno vuole parlare.

Daniel però ricorda che, quando era un bimbetto di sei-otto anni, tutte le volte che entrava in una stanza in cui c'erano dei parenti ebrei, questi scoppiavano in lacrime ed esclamavano: "Oh, come assomiglia a Schmiel!"

Daniel Mendelsohn è un ebreo laico americano appartenente alla terza generazione di una famiglia di ebrei provenienti da Bolechow, (oggi Bolekhiv) ---- uno stethl dell'Europa orientale (Galizia) passato dall'impero austro ungarico ai polacchi, poi ai sovietici ed infine all'Ucraina --- riusciti ad emigrare negli Stati Uniti appena in tempo prima dell'inizio della Shoah.

Insegna greco antico a New York.

Proprio così: colui che si potrebbe immaginare ossessionato dall'Europa centrale lacerata nel corso dei secoli tra L'Austria-Ungheria, la Germania, la Polonia, l'Ucraina e la Russia, è in realtà un appassionato dell'antica Grecia, della mitologia, dei grandi classici latini e greci.

Lui stesso, in un'intervista, ha spiegato le ragioni di questo amore dicendo: "Io sono ebreo ed omosessuale. La componente ebrea, in me, è la componente della tradizione della famiglia, del dovere. La componente greca, pagana, è quella del desiderio e del piacere".

Articoli e saggi di Mendelsohn compaiono sul New Yorker, sul New York Times Book Review, sull' Esquire e Paris Review e in volumi antologici. Gli scomparsi non è il suo primo libro: prima di questo, nel 2001 aveva pubblicato The Elusive Embrace: Desire and the Riddle of Identity", che era stato premiato come libro dell'anno dal New York Times e dal Los Angeles Times.

Questo libro è il risultato della ricerca personale che Daniel Mendelsohn ha condotto per far luce sul destino di alcuni membri della sua famiglia scomparsi nell'Olocausto.

Com'è nato Gli scomparsi? Fin da bambino, Daniel Mendelsohn si appassiona alla storia della famiglia, ricostruisce l'intricatissimo albero genealogico, ascolta le storie che gli racconta il nonno: a poco a poco riesce a delineare il quadro dell'ascendenza familiare risalendo per tre o quattro generazioni. Ma si accorge che ci sono alcune persone di cui non si parla mai, a proposito delle quali il nonno, di solito tanto loquace e generoso di aneddoti di ogni genere, diventa improvvisamente muto: si tratta del prozio Schmiel (fratello del nonno) e della sua famiglia.

Di lui viene a sapere soltanto che non è riuscito ad arrivare in America, che è rimasto a Bolechlow con la moglie e le sue "quattro bellissime figlie" e che tutti loro sono stati "uccisi dai nazisti" nel 1941.

Ma quando, esattamente? E dove? E come? Ogni volta che Daniel formula queste domande, tutti i parenti tacciono. Dello zio Schmiel e della sua famiglia nessuno vuole parlare.

Daniel però ricorda che, quando era un bimbetto di sei-otto anni, tutte le volte che entrava in una stanza in cui c'erano dei parenti ebrei, questi scoppiavano in lacrime ed esclamavano: "Oh, come assomiglia a Schmiel!"




Alla morte dell'amato nonno, Daniel scopre le lettere che Schmiel aveva inviato nel 1939 a suo fratello già negli Stati Uniti. La lettura di queste lettere lo spinge ad una ricerca che in un primo tempo realizza sulle carte di famiglia e utilizzando tutte le risorse che oggi Internet offre, ma che in una seconda fase svolgerà "sul campo", andando in cerca di persona (accompagnato dal fratello minore Matt, eccellente fotografo) della manciata di sopravvissuti allo sterminio degli ebrei di Bolechow ancora viventi e che si trovano sparpagliati dall'Australia a Israele, dall'Olanda all'Austria.

Spera, attraverso i loro ricordi e le loro testimonianze, di ricostruire la storia dei suoi scomparsi.

In effetti, quello di cui Daniel si rende conto, man mano che la sua ricerca procede, è che con lo sterminio di tutta la popolazione ebrea di Bolechow non solo lo zio Schmiel e la sua famiglia sono "perduti" ("lost", è il titolo originale inglese), ma è tutto un mondo, che è andato perduto, un mondo e la sua cultura e, in parte, anche la sua lingua.



Il racconto di Mendelsohn è commovente, talvolta persino divertente, costruito come un giallo. E' un "Alla ricerca di un passato familiare perduto" che evoca l'opera di Proust, che lo scrittore ha riletto attentamente prima di immergersi nella realizzazione di questo testo.

Ebreo di terza generazione, l'ultima ad avere la possibilità di contattare sopravvissuti della Shoah, Daniel Mendelsohn realizza un vero capolavoro, una testimonianza dell'indicibile in lotta con i tabu di questo periodo storico.

Il suo non è però un ennesimo libro sulla  Shoah.

 E' innanzitutto un'opera letteraria, che cerca di dare una risposta ad una domanda fondamentale, per uno scrittore: come scrivere di un passato che non si è conosciuto? Cosa possiamo sapere del destino di uomini e donne svanito da così tanto tempo?

Mendelsohn parte dunque per un viaggio nella "terra dei padri", va a Bolechow in cui la popolazione (diecimila abitanti circa), prima della guerra era composta per un terzo da ebrei, un terzo da ucraini ed un terzo da polacchi. Dopo la guerra, di ebrei ne erano rimasti solo 48...

Il viaggio è deludente, Mendelsohn non apprende che banalità, del genere "tre culture che coabitavano bene", etc.

Torna in America ed ecco, qualche mese dopo, il punto di svolta.

Una sera squilla il telefono. E' un sopravvissuto di Bolechow che chiama dall'Australia: "... lei non mi conosce, ma io ho saputo che cerca notizie su Bolechow. Io posso esserle utile". Inizia così per Daniel Mendelsohn, questo specialista di culture antiche, una Odissea che da New York lo porta in Australia, Praga, Tel Aviv, Vilnius; dalla Svezia a Vienna, e poi ancora in Danimarca e di nuovo, infine, in Ucraina...

Un'odissea in cui a poco a poco comincia a pensare di essere "alla ricerca della storia sbagliata -- la storia del modo in cui sono morti, piuttosto che quella del modo in cui sono vissuti".

Mendelsohn non vuole parlare di morti.

Tenta di restituire, a Schmiel ed alla sua famiglia, una vita che è stata loro rubata, un'umanità fatta di dettagli di vita quotidiana, quella che fu la "loro" vita. Il viaggio deve servire a salvare i suoi parenti "dalle generalizzazioni, dai simboli, per render loro la loro individualità", a "riportare in vita gli scomparsi" (p.287).

Le testimonianze dei dodici sopravvissuti allo sterminio degli ebrei di Bolechow  ancora viventi, le domande che fa loro, sono prive di sentimentalismo ma ricche di partecipazione emotiva.

Confronta i nuovi dati che apprende con i dati di cui è già a conoscenza.
A tutti pone la medesima domanda: "Vi ricordate di Shmiel e della sua famiglia?".
Le risposte sono tante, a volte reticenti, a volte contraddittorie, si tratta di dar forma e senso ad un puzzle, "sistematizzare il sapere", "ordinare una massa informe di dati [...] imporre ordine al caos" per ricostruire un tessuto familiare e con esso, inevitabilmente, anche il destino di una collettività la maggior parte della quale annientata ed i cui pochissimi superstiti sono adesso sparsi per i quattro angoli del mondo.



Loro, i testimoni diretti (tutti ormai quasi novantenni) delle Atkionen naziste (e ucraine) che tra il 1942 e il 1943 avevano praticamente cancellato la presenza ebraica nel paese d'origine mostrano una grandissima dignità quando guardano vecchie foto per ricordare, risvegliare la memoria per raccontare com'era quel "paese d'altri tempi".

Nel libro ci sono molte immagini. Ci sono le vecchie foto di Schmiel, di sua moglie e delle figlie ma anche di alcuni dei sopravvissuti e ci sono anche le foto scattate da Matt, il fratello di Daniel, ai vari testimoni.

La presenza delle immagini nel testo e del loro ruolo di attivazione della memoria non può, ovviamente, non ricordare Sebald e d'altra parte lo stesso Mendelsohn lo cita, anche se indirettamente.
E poi, si, si, certo,  anche a me è venuto    subito in mente il Sebald  de Gli emigrati...

La somiglianza tra il libro di Mendelsohn e quelli di Sebald però finisce qui, perchè per Mendelsohn il significato delle immagini si collega piuttosto alla grande letteratura classica: "Il significato delle immagini --- come possono costituire un divertimento per alcuni, e suscitare una profonda, persino sconvolgente commozione per altri --- è il tema di uno dei passi più celebri della letteratura classica. Nell'Eneide, il poema epico di Virgilio che quanti sono sopravvissuti a catastrofiche distruzioni riveste un particolare significato" e ricorda in particolare il passaggio in cui Enea, a Cartagine, si trova davanti un dipinto raffigurante scene della guerra di Troia e ne rimane profondamente turbato: "Per i cartaginesi quel conflitto era semplicemente un motivo decorativo, [...] per Enea, naturalmente, riveste ben altro significato e davanti a quella immagine che narra la sua vita scoppia in lacrime".

Mendelsohn, con una grande sensibilità, comprende che queste immagini che per lui non sono che interessanti, istruttive o al massimo commoventi hanno, per i sopravvissuti "il potere improvviso di ricordare alle persone alle quali le mostravo adesso la vita ed il mondo dal quale erano stati strappati" perchè queste persone sono, a differenza di lui, ebreo di terza generazione, sono "persone [...] ricche di memoria ma povere di ricordi"

E gli torna in mente il celeberrimo  verso dell'Eneide: "Sunt lacrimae rerum":  ci sono lacrime nelle cose, "ma noi piangiamo tutti per ragioni differenti".



Una componente originalissima del testo di Mendelsohn (continuo a chiamarlo "testo" perchè mi rifiuto di incasellarlo in un "genere" classificandolo come romanzo, biografia, ricerca storica, raccolta di testimonianze, perchè il libro è tutte queste cose insieme) è il fatto che la storia della ricerca è "accompagnata" dall'inserimento di riflessioni esegetiche su alcuni corposi e fondamentali passi della Torah.    Mendelsohn   utilizza  questi  passi  come griglia di lettura per le vicende storiche di cui va narrando e delle tematiche che va esplorando: la Genesi e il Diluvio (creazione ---> distruzione, Olocausto ----> rinascita attraverso pochi sopravvissuti), il conflitto/rivalità tra fratelli (Caino ed Abele: perchè il nonno non mandò al fratello rimasto in Europa i soldi per il viaggio in America che avrebbe potuto salvare la vita a lui ed alla sua famiglia?), il viaggio (il viaggio di ricerca di Mendelsohn, il viaggio in America del nonno, il viaggio di emigrazione verso Paesi sconosciuti --- Abramo --- il viaggio di ritorno in patria --- Odisseo), il viaggio in Palestina di un altro dei fratelli del nonno, negli anni '30, il viaggio/percorso di conoscenza, il viaggio nel tempo passato.



Quello che emerge a poco a poco e in modo sempre più distinto dalla lettura de Gli scomparsi non è soltanto l'individualità di Schmiel Jäger, della moglie Ester e delle figlie Lorka, Frydka, Ruchele e Bronia (di cui all'inizio della ricerca l'autore non conosceva nemmeno i nomi propri) ma i caratteri dei testimoni, la loro personalità, il loro essere accomunati ma anche divisi da un passato comune,  il loro non riuscire a prendere emotivamente le distanze dalle terribili esperienze di sessantanni prima   che li hanno segnati per sempre ("qualcosa si è spezzato dentro", è una frase ricorrente) nonostante il radicale cambiamento determinato dall'essere emigrati in paesi, continenti, culture e lingue diverse da quelle di origine.


Gli scomparsi è un libro molto bello e coinvolgente, ricco di storie dentro altre storie: c'è la storia della famiglia di Schmiel, la storia di una comunità (gli ebrei di Bolechow), la storia di una ricerca storica, le storie dei sopravvissuti, le storie di viaggi nel tempo, nello spazio, nella memoria... la storia della attuale famiglia americana di Daniel e del suo rapporto con i propri fratelli...

Certo, occorre una certa attenzione per non perdersi nelle decine e decine di nomi di quasi quattro generazioni (ma in questo aiuta molto l'albero genealogico posto proprio all'inizio del libro) e dei testimoni, nel labirinto delle continue scoperte, smentite, ipotesi, tentativi di verifica delle ipotesi, testimonianze a volte contraddittorie, nella struttura linguistica spiraliforme.

Come tutti i grandi libri, la lettura  de  Gli scomparsi  richiede   pazienza ed attenzione, ma il testo di Mendelsohn si legge molto scorrevolmente e l'autore si rivela, pagina dopo pagina, un grande scrittore.

Nella sua ricerca, Mendelsohn si comporta come un detective che vuole sapere, non giudicare.

Non cerca il "perchè" ma il "come". Più volte nel libro, e in tutte le interviste che ho letto, Mendelsohn ripete di non essere ossessionato dalla Shoah:

"Per me era solo una questione di famiglia, un interesse privato. In fondo volevo scoprire quale fosse stato il destino di zio Schmiel e degli altri" (p.402)

Procedendo in questo modo Mendelsohn si rivela non solo una persona sensibile, delicata, ricca di calore umano, rispettoso degli altri, erudito ma non pedante ma fornisce anche, in realtà, uno spaccato molto realistico e commovente sui massacri della Shoah.

Comprendendo che "Per i lettori è naturalmente più piacevole assimilare il significato di un vasto affresco storico attraverso la storia di una singola famiglia" (p.34) riesce ad innescare in chi legge quel processo di identificazione e di empatia che è indispensabile per potere, se non immedesimarsi, almeno avvicinarsi alla comprensione di un dramma che ha travolto milioni di persone. Non a caso il titolo originale del libro recita "Six of six million".

Sei milioni è solo un'entità numerica astratta, mentre il racconto dettagliato di come vennero trucidati sei individui dei quali è possibile tratteggiare personalità, piccole abitudini quotidiane ("portava la borsetta in questo modo", "aveva delle belle gambe", "teneva la casa come uno specchio") ci commuove profondamente e contribuisce molto --- può sembrare paradossale, ma è così --- ad ampliare la nostra conoscenza sulla Shoah nell'Europa orientale, sui rapporti tra ebrei ed ucraini ( "gli ucraini erano i peggiori di tutti" , ripeteva sempre il nonno di Daniel)



Joyce Carol Oates ha ragione quando dice che il libro di Mendelsohn ha molte assonanze con Alla ricerca del tempo perduto di Proust, ed Alessandro Piperno, in un articolo, scrive che Proust sembra essere "il convitato di pietra" del libro. Le frasi lunghe e sinuose di Mendelsohn, nelle quali abbondano gli incisi e le parentetiche, le sue circonvoluzioni, i ritratti di certi personaggi, la grande sensibilità che gli permette di cogliere attraverso mezze parole, uno sguardo, un accenno, i sentimenti non espressi apertamente, inespressi e inesprimibili dei suoi interlocutori.

D'altra parte, che Mendelsohn ponga in qualche modo Proust come una sorta di "nume tutelare" della sua opera lo colgo anche nel fatto che egli sceglie come epigrafi per la parte iniziale (Bereishit, ovvero il principio) e per quello finale (Vayeira, ovvero l'albero nel giardino) della sua opera proprio due  frasi di Marcel Proust.

La prima è tratta da La prisonnière:
"Quand nous avons dépassé un certain âge, l'âme de l'enfant que nous fûmes et l'âme des morts dont nous sommes sortis viennent nous jeter à poignée leurs richesses et leurs mauvais sorts..."

Superata una certa età lo spirito del bambino che era in noi e le anime dei nostri defunti profondono ricchezze e incantesimi su di noi..."
La seconda è tratta da À l'ombre des jeunes filles en fleur:
"c'est que dans l'état d'esprit où l'on «observe», on est très au-dessous du niveau où l'on se trouve quand on crée."

"...la condizione mentale di chi "osserva" è di gran lunga inferiore a quella di chi crea"
Pubblicato per la prima volta nel 2006, Gli scomparsi ha ottenuto un enorme successo in tutto il mondo ed ha già collezionato un notevole numero di premi: il National Book Critics' Circle Award, il National Jewish Book Award, il Salon Book Award, l' American Library Association Medal for Outstanding Contribution to Jewish Literature ed in Francia il Prix Médicis Etranger, prestigioso riconoscimento assegnato ogni anno a scrittori stranieri.